
Un test tedesco trova batteri resistenti agli antibiotici in 14 petti di pollo su 23, anche biologici. Non è un rischio immediato se ben cotto, ma segnala un problema globale: in Italia oltre 10mila morti l’anno
Quattordici filetti di petto di pollo su ventitré. È la proporzione che basta da sola a togliere l’appetito: oltre il 60% dei campioni analizzati in Germania in un test su pollo fresco risulta contaminato da batteri resistenti agli antibiotici, inclusi ceppi che in ospedale fanno paura – e che compaiono perfino nella carne biologica.
Il test, pubblicato dalla rivista tedesca Öko-Test, accende ancora una volta un faro sul legame tra allevamenti intensivi, macelli, igiene della filiera e una minaccia che da tempo non è più confinata alle corsie ospedaliere: l’antibiotico-resistenza, una delle sfide sanitarie più gravi a livello globale.
Ma se il caso tedesco colpisce per l’evidenza “da banco frigo”, in Italia la fotografia è già drammatica: ogni anno, nel nostro Paese, si stimano oltre 10mila decessi legati all’inefficacia degli antimicrobici contro infezioni batteriche – più di un terzo del totale europeo, che è di circa 33mila morti.
Cosa hanno trovato in Germania
L’indagine tedesca ha preso in esame 23 petti di pollo freschi acquistati sul mercato, provenienti da diverse tipologie di allevamento: 12 campioni erano biologici. Le analisi microbiologiche hanno rilevato batteri potenzialmente patogeni e resistenti, con una percentuale di contaminazione che riguarda sia carne convenzionale sia carne bio.
Tra i risultati più significativi:
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batteri produttori di ESBL e/o AmpC rilevati in numerosi campioni: si tratta di enzimi che rendono inefficaci diverse famiglie di antibiotici (come penicilline e cefalosporine);
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MRSA (Staphylococcus aureus meticillino-resistente), il cosiddetto “batterio ospedaliero”, noto per la sua capacità di rendere più difficili e lunghe le cure.
Il punto centrale, sottolineato anche dagli stessi produttori coinvolti, è che la presenza di questi batteri non implica automaticamente un rischio immediato per il consumatore, perché una cottura completa li elimina. Ma il dato resta allarmante per due motivi: la diffusione ambientale delle resistenze e il fatto che la filiera alimentare possa diventare un vettore di contaminazione e colonizzazione.
Perché finiscono nel pollo
Il test tedesco richiama due fattori chiave.
Il primo è l’uso di antibiotici negli allevamenti intensivi. Anche quando formalmente ridotto o regolato, un consumo elevato – soprattutto in sistemi ad alta densità animale – favorisce la selezione di ceppi resistenti.
Il secondo è la contaminazione crociata nei macelli. Molti stabilimenti lavorano animali provenienti da filiere diverse, anche biologiche. E i batteri – ovviamente – non distinguono tra “bio” e “convenzionale”: se entrano nella linea di lavorazione, possono passare da un lotto all’altro.
È anche per questo che nel test tedesco compaiono ceppi resistenti anche nel pollo biologico, nonostante in teoria l’uso di antibiotici in quel tipo di allevamento sia più limitato e sottoposto a criteri più rigidi.
L’Italia il paese europeo con il bilancio più grave
Il tema non riguarda solo “cosa c’è sul pollo” in Germania. Riguarda quello che sta accadendo – già ora – nei nostri ospedali e nelle nostre comunità.
Secondo i dati riportati dal Salvagente (2019), nei Paesi dell’Unione europea si stimano circa 671.689 casi di infezioni antibiotico-resistenti, associati a 33.110 decessi. E in questa tragedia sanitaria l’Italia ha il primato peggiore: oltre 10mila morti l’anno, cioè più di un terzo del totale europeo.
Un altro numero che fa riflettere: il 63% di queste infezioni risulta essere correlato all’assistenza sanitaria e sociosanitaria, cioè avviene in contesti di cura (ospedali, RSA, strutture).
Questo significa che il problema non è astratto e non è “futuro”: è già una crisi presente e “di sistema”, alimentata da più fronti – medicina umana, veterinaria, ambiente, sicurezza alimentare.
Un problema di filiera
La carne di pollo non è l’origine unica del fenomeno, ma è un tassello importante. Perché:
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la selezione di resistenze in allevamento può diffondersi via liquami, suolo, acqua;
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la contaminazione alimentare può contribuire alla colonizzazione umana, anche senza causare subito malattia;
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la diffusione di ceppi resistenti aumenta la probabilità che, quando un’infezione arriva davvero (in ospedale o fuori), gli antibiotici non funzionino più.
Il test tedesco, dunque, non va letto come un allarme “da cucina”, ma come la conferma che il problema è strutturale: riguarda filiera, controlli, modelli produttivi e soprattutto un fenomeno che l’OMS considera tra le principali minacce sanitarie del secolo.
La cucina è un punto critico
Nel test tedesco viene ricordato anche un punto pratico che vale la pena ribadire: il pollame crudo è un alimento intrinsecamente a rischio microbiologico, non solo per la salmonella. Questo implica che – in presenza di batteri resistenti – l’igiene domestica (mani, superfici, utensili, separazione dei cibi) diventa essenziale per evitare la contaminazione di altri alimenti.
E la regola più semplice resta sempre la stessa: cottura completa.
Ma attenzione: la questione non si esaurisce nel comportamento del consumatore. La contaminazione in origine e in lavorazione è un problema di filiera, e richiede interventi sull’uso di antibiotici, sul benessere animale, sulla densità degli allevamenti e sui controlli lungo la catena produttiva.









