Riso bio, maxi inchiesta per frode e irregolarità in Lomellina: perquisite 14 aziende

riso bio

La procura di Pavia ha diposto la perquisizione di 14 aziende agricole che producono riso biologico, sequestrando 11.500 litri di fitofarmaci e 450 quintali di fertilizzanti. Tra contaminazioni sospette e confezioni di pesticidi ritrovati nelle aziende, l’accusa è di aver dichiarato bio prodotti che non lo sono. Il dibattito sull’efficacia delle certificazioni

 

La procura della Repubblica di Pavia ha diposto la perquisizione di 14 aziende agricole che producono riso biologico, gran parte delle quali si trova in Lomellina, sequestrando 11.500 litri di fitofarmaci e 450 quintali di fertilizzanti. Tra contaminazioni sospette e confezioni di pesticidi ritrovati nelle aziende, l’accusa è di aver dichiarato bio prodotti che non lo sono. Secondo quanto risulta al Salvagente, le aziende in questione, ad eccezione di una, sarebbero tutte a produzione mista: in parte convenzionale e in parte bio. A certificarle come bio sarebbero gli organismi di controllo bioagricert e Ecogruppo Italia, che fanno parte dell’associazione Assicertbio.

L’operazione sul falso bio

L’operazione, partita dalle investigazioni del Icqrf ed eseguita dalla Guardia di Finanza, impegna oltre 100 uomini e donne delle forze dell’ordine. Secondo quanto riporta il comunicato della Procura di Pavia evidenziate “criticità rispetto alla conformità delle produzioni al metodo biologico e al relativo iter di certificazione”. Inoltre, si è campionato il riso in campo per “determinare il livello di contaminazione delle coltivazioni. Le coltivazioni sarebbero state falsamente dichiarate come biologiche”.

Nello specifico, spiega la procura, oltre ai fertilizzanti e ai pesticidi sequestrati, sono state trovate “numerosissime confezioni vuote di prodotti fitosanitari in quanto già impiegate, documenti contabili ed extracontabili afferenti le condotte oggetto d’indagine”.

Federbio: servono controlli più approfondite

FederBio, l’associazione dei produttori biologici si schiera contro le aziende che fanno falso bio, ed “elogia l’operato della Procura di Pavia”.  “Esprimiamo pieno sostegno e fiducia alla Magistratura e agli inquirenti che hanno smascherato questa maxi frode – dichiara Paolo Carnemolla, Coordinatore Unità di Crisi di FederBio-.Le criticità del comparto risicolo biologico sono note da anni. FederBio si schiara a fianco delle Regioni Lombardia e Piemonte e del Masaf (ministero dell’Agricoltura, ndr). L’obiettivo è rendere più restrittive le regole di produzione e i punti di controllo in situazioni come quelle riscontrate dalla Procura di Pavia”. Già alcuni anni fa Federbio aveva indicato all’Ircqf casi di anomalie nel confronto dei dati sulla carta relativi a rese e produzioni dichiarate.

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La questione certificazione

“L’esito di questa operazione – aggiunge Carnemolla – conferma che è concreto il pericolo di truffe, anche rilevanti, quando sussiste un elevato rischio di commistione fra produzione convenzionale e biologica. Quanto fatto finora non è evidentemente sufficiente a prevenire le frodi, si deve aprire immediatamente un confronto con tutti gli attori della filiera, gli organismi di certificazione e le Autorità competenti a livello regionale e nazionale per rivedere le regole e gli strumenti di certificazione, che sono fondamentali per tutelare il Made in Italy biologico e le vocazioni di produttive di interi territori come nel caso del riso”.

L’inchiesta del Salvagente

Proprio alla questione certificazione e alla necessità di un’evoluzione in senso di maggiori garanzie per il consumatore, il Salvagente ha dedicato l’inchiesta di copertina nel numero di marzo 2023. Anche, perché, com’era prevedibile, nel settore si sono lanciati anche pesi massimi della filiera agroalimentare, e se da una parte questo ha contribuito ad allargare il mercato, con i prodotti contrassegnati dalla fogliolina verde in etichetta ormai presenti in quasi tutti i supermercati e perfino nei discount, dall’altro un eccessivo snaturamento rischia di incrinare la fiducia dei consumatori storici.

Il caso Fileni

A partire dal polverone che si è sollevato su Fileni, dopo l’inchiesta trasmessa da Report a inizio gennaio, il dibattito avviato dal caso coglie sicuramente un punto: se il biologico è cambiato negli anni, non è forse l’ora di aggiornare anche le leggi e i regolamenti, in modo da confermare nel tempo il patto di fiducia con i consumatori, che oggi scricchiola?

Il dibattito sulle regole

Secondo Vincenzo Vizioli, che si occupa di bio da quasi quarant’anni, ed è presidente della Fondazione italiana per la ricerca in agricoltura biologica e biodinamica (Firab): “Il problema è legato a un’impostazione del biologico industriale, che può anche andare bene, fermo restando che alcune norme non possono essere bypassate e su questo gli organismi di controllo devono operare”. Vizioli ricorda che il biologico è l’unico sistema di produzione normato a livello europeo, ma ammette che nella sostanza “non è tutto uguale, perché ormai si è divaricata una forbice che non si chiuderà più tra biologico della piccola azienda e biologico industriale. Ci sono differenze di tipo sia qualitativo che etico. E se dobbiamo dire grazie alla Gdo perché è grazie a essa che il biologico è diventato di massa, è anche vero che nel momento in cui non si ragiona sul giusto prezzo, ma sulla competizione, la gran parte dei prodotti bio nei supermercati ha l’etichetta con su scritto come origine Ue/non Ue, invece che Italia. Vedi i legumi, per esempio”.

Ma al di là della differenza di approccio filosofico che ha conseguenze anche sulle scelte produttive, una domanda che serpeggia tra gli scettici è se il sistema di controllo sia sufficiente a garantire che il bio sia effettivamente tale. Così come Vizioli, anche Giuseppe Romano, presidente dell’Associazione italiana agricoltura biologica, difende la qualità del processo: “Ricordiamoci che il sistema di certificazione bio garantisce almeno una visita l’anno per azienda, cosa che nelle aziende agricole convenzionali non avviene. Parliamo di 120-150mila controlli l’anno su 86mila aziende. E in più, il bio è sottoposto alle stesse verifiche di qualsiasi altro produttore in Italia, dunque è in assoluto il sistema di certificazione più sicuro”, spiega Romano, che però – dando per scontata la buona fede degli ispettori – punta il dito sulla burocrazia, come principale nemico: “È chiaro che se un ispettore che deve fare una visita in azienda è costretto a controllare le carte, i registri, le fatture, venendo massacrato da elenchi a crocette da riempire, e tutto senza un minimo di digitalizzazione, finirà per sottrarre tempo al giro per i campi, dove, per esempio, potrebbe notare segnali di trattamenti vietati”.

Gli organismi di controllo

Che il mercato sia fiorente lo testimonia anche il numero di organismi di controllo (odc) accreditati per certificare il biologico, che in Italia sono 19. Enti privati che devono chiedere l’autorizzazione ad Accredia, agenzia dipendente dal ministero delle Politiche agricole, che a sua volta svolge i controlli su di loro e ha la possibilità di sospenderli o radiarli dall’albo in caso di comportamento scorretto. Gli scettici del bio si chiedono se il fatto che a pagare il controllore sia il controllato (mediamente la certificazione costa da qualche centinaio a mille-duemila euro l’anno, ma si arriva a cifre ben più alte per i colossi del settore), non influenzi la terzietà degli ispettori, e se non sia il caso di passare a un sistema interamente pubblico. “Non avverrà mai il passaggio allo Stato – commenta Vizioli – Già nel 1991, quando è uscito il regolamento europeo, ogni paese poteva scegliere tra certificazione privata, pubblica e mista. La quasi totalità dei paesi ha scelto quella privata”. Gli fa eco Giuseppe Romano: “Il sistema pubblico non potrebbe permettersi un numero così massiccio e ramificato di controlli”.

L’esperto che rivela i problemi del settore

Un punto di vista, condiviso anche da un esperto che lavora nel mondo del bio, e che per anni ha operato a stretto contatto con i certificatori, e non vuol essere citato per poter parlare in tutta franchezza: “Il problema non sono gli organismi di controllo pubblici o privati, anche perché i controlli che subiscono da Accredia sono severi e spesso mirati, il problema è che la concorrenza a ribasso dei prezzi tra gli organismi crea un mercato in cui il numero di ispettori a disposizione di un odc è sempre lo stesso o varia di poco, mentre magari le aziende da certificare crescono dieci volte tanto. Con queste premesse, è facile che chi fa i prezzi stracciati finisca a fare visite frettolose o addirittura a limitarsi a chiedere alle aziende di spedire i documenti da controllare”.

Le classi di rischio

Quello che in molti non sanno, infatti, è che il nuovo Regolamento europeo del biologico, l’848/2018, entrato in vigore un anno fa, introduce una possibilità che ha mandato in crisi controllori e Accredia. “Il testo prevede che se un’azienda in classe di rischio bassa si comporta bene per un periodo di 36 mesi, il controllore può anche saltare una visita in loco”, spiega l’esperto, “il punto è che nei tavoli tecnici tra ministero e organismi di controllo, da allora si discute se questo significhi che l’azienda abbia diritto a chiedere di esimersi dalla visita e quindi anche un prezzo più basso sulla certificazione, e se in questo caso sia tenuta comunque ad inviare i documenti necessari per i controlli, o se tempistica, prezzi e modalità siano interamente prerogative dell’odc”. In assenza di un chiarimento (la nostra fonte sostiene che dopo aver messo una serie di pezze normative al posto del Mipaaf, Accredia su questo punto abbia deciso di attendere una mossa dal ministero), alcuni organismi di controllo starebbero approfittando del buco per interpretare in maniera meno severa la regola del controllo annuo per azienda.

“Vuoti attuativi a parte – continua il nostro interlocutore – è vero che servirebbero più controlli all’anno, cosa che però comporterebbe un maggiore aggravio economico per i produttori, ma la prima cosa che andrebbe fatta è eliminare le visite concordate: se tutte le ispezioni fossero a sorpresa, gli eventuali furbi, che oggi hanno settimane, a volte mesi grazie alle richieste di rinvio, per nascondere le magagne prima della visita, verrebbero scoperti più facilmente”.

E anche sui controlli incrociati, il ministero potrebbe fare di più: “Sono anni – spiega Giuseppe Romano – che chiediamo al Mipaaf di creare un database pubblico in cui tutti gli odc possano inserire i dati relativi alle ispezioni, in modo da poterli confrontare, e metterli a disposizione anche dell’Ispettorato centrale repressione frodi. Di fronte a un temporeggiamento, gli organismi se ne sono fatta una privata, Rete Oip, offrendo di metterla a disposizione dei controlli pubblici, ma il ministero ha risposto ‘ci pensiamo noi’. Ancora aspettiamo”.