L’industria della pasta italiana e il principio di precauzione sulla furosina

PASTA SPECULAZIONE

Fino a qualche mese fa in molti, anche tra i produttori di pasta italiana, conoscevano e monitoravano la furosina, il contaminante che si crea quando si sceglie la strada dell’essiccazione rapida. C’è voluta una coraggiosa inchiesta di Sabrina Giannini in Indovina chi viene a Cena per far emergere il problema. Che affrontiamo con nuove analisi nel numero in edicola

Quello che ci saremmo aspettati, in un paese che giustamente si appunta la medaglia di miglior produttore e di più grande consumatore di pasta nel mondo, è che le industrie conoscessero meglio di ogni altra cosa il proprio prodotto. E che chi fa ricerca pubblica si fosse concentrato proprio sul nostro alimento simbolo, svelandone i segreti e togliendo dai piatti qualunque ombra di sospetto.
E invece c’è stato bisogno di una coraggiosa puntata di Indovina chi viene a cena di Sabrina Giannini per sconvolgere le nostre certezze. E scoprire l’esistenza di un contaminante tecnologico (ossia di una sostanza che si genera durante la lavorazione di un alimento, in questo caso per le alte temperature) come la furosina.
In pochi, fino a quel momento, controllavano la sua formazione e la quantità in spaghetti, maccheroni e via dicendo. Quando il Salvagente ha contattato le aziende coinvolte nel test che abbiamo appena mandato in edicola, però, a poco più di due mesi di distanza dalla trasmissione di Rai Tre, ha trovato interlocutori molto sensibili (se non suscettibili) al potenziale problema.

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Certo, come leggerete, tutti ribadiscono – giustamente – che non ci sono limiti. Qualcuno tra gli esperti consultati da Enrico Cinotti, parla addirittura di un “falso problema”, ma di fatto le industrie sono evidentemente preoccupate o confortate (dipende dai casi) delle nostre analisi.
E qui vorremmo allargare il discorso alla capacità di ricerca e innovazione dell’industria italiana che eccelle quando immagina e interviene sul futuro, prima degli altri e in qualche caso meglio degli altri.
Prendiamo due casi emblematici che possono dare il senso di quella che sembra un’affermazione vaga. Quando nel 2016 l’Efsa si accorse che l’olio di palma poteva sprigionare ad alta temperatura un composto tossico (il 3-mcpd) molte aziende furono travolte dall’allarme. Non tutte. Come scoprimmo, c’era anche chi, come Ferrero, aveva già da tempo al suo interno un laboratorio per misurarlo e dunque per contenere quella che, fino a quel momento, era una minaccia che conoscevano in pochi. E per questo – considerazioni etiche o nutrizionali a parte – Ferrero è anche stata una delle pochissime aziende a continuare a ospitare l’olio di palma nelle sue ricette e addirittura a rivendicarlo.
Facciamo un altro salto indietro di altri 20 anni, per l’esattezza al 1996, quando la sindrome da mucca pazza sconvolse i mercati. Chi scrive, all’epoca redattore del Salvagente, diversi mesi prima che le immagini di quelle povere vacche malate e tremolanti sulle gambe provocassero emozioni in tutto il mondo, chiese a Plasmon come mai avesse tolto dall’assortimento gli omogeneizzati di cervello. E si sentì rispondere che c’era un “problema” chiamato Bse. Due casi – ne potremmo citare altri – di come di fronte a un segnale di pericolo, seppure ancora non “ufficiale”, le industrie intervenute con azioni concrete siano uscite bene dalla inevitabile crisi.
Torniamo alla nostra furosina e chiediamoci se non sia il caso, ora, di adottare tecniche di produzione (e soprattutto di essiccamento) che ne scongiurino la presenza in alte quantità. Anche in questo caso qualche evidenza degli effetti sulla salute c’è, così come esiste il modo di misurare questa sostanza. E fino a che la ricerca (ci auguriamo pubblica e italiana) non chiarisca definitivamente i profili di rischio, il modo migliore per intervenire è ricorrere ancora al principio di precauzione. L’industria della pasta italiana ha le capacità per farlo – come dimostra il nostro test – esattamente come ha fatto intervenendo in questi anni sugli approvvigionamenti di grano fino a escludere qualunque traccia di glifosato. Basta che non metta la testa sotto la sabbia.