Siccità, il piano invasi non basta. Dissalatori, recupero e zero sprechi: gli esempi da seguire

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Il governo Draghi a giugno ha messo in campo 900 milioni di euro per le prime misure di contrasto alla siccità in tempi medi, ma potrebbero non bastare. Un appello di Wwf, Legambiente, Cai, Lipu e altri chiede misure strutturali e un cambio di strategia. Nel mondo, ci sono già paesi come Israele, dove si arriva a recuperare quasi il 90% dell’acqua

 

Se la speranza di tutti è quella di veder arrivare sul territorio italiano un po’ di pioggia e, soprattutto una rinfrescata, quello che non può essere cambiato è il drammatico stato dei campi e dei fiumi assetati dalla siccità che dura ormai da mesi. Il governo Draghi a giugno ha messo in campo 900 milioni di euro per le prime misure di contrasto in tempi medi, ma potrebbero non bastare.

L’appello di Wwf, Legambiente, Cai, e Lipu

“La grave crisi idrica in corso è senza dubbio da inquadrare nella epocale crisi climatica ed ecologica in atto e come tale va approcciata in modo strutturale, affrontando le cause e non correndo dietro ai sintomi: bisogna dunque evitare risposte emergenziali e analizzare il problema con freddezza per individuare le soluzioni”. Questo l’appello che le associazioni,CIPRA Italia, CIRF, Club Alpino Italiano – CAI,Federazione Nazionale Pro Natura, Free Rivers Italia, Legambiente, LIPU, Mountain Wilderness e WWF Italia hanno infatti lanciato, ribadendo quelle che per loro sono sette interventi chiave su cui è fondamentale lavorare per andare oltre l’emergenza e su cui il prossimo nuovo Esecutivo dovrà subito confrontarsi.

La prima azione necessaria è ricostituire una regia unica, da parte delle Autorità di bacino distrettuale, attualmente marginalizzate, per costruire protocolli di raccolta dati e modelli logico/previsionali che permettano di conoscere il sistema delle disponibilità, dei consumi reali, della domanda potenziale e definire degli aggiornati bilanci idrici. “Nuovi invasi non sono la risposta” scrivono le associazioni che ribadiscono di non avere nessuna opposizione “ideologica”, ma “sono una soluzione che ha molte controindicazioni per cui è semplicemente scriteriato affidarsi esclusivamente ad essi”. Occorre, per i firmatari, mettere in campo una strategia nazionale integrata e a livello di bacini idrografici, allargando e ampliando il ventaglio delle soluzioni tecniche praticabili attraverso la realizzazione di nuove e moderne pratiche e misure per ridurre la domanda di acqua ed evitarne gli sprechi. Con esse si comprende il risparmio negli usi civili attraverso la riduzione delle perdite e dei consumi, ma soprattutto negli usi agricoli dove è necessario rivedere drasticamente gli interventi del Piano Strategico della Pac per renderli capaci di orientare le scelte degli agricoltori verso colture e sistemi agroalimentari meno idroesigenti e metodi irrigui più efficienti.

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I cambiamenti climatici impongono un cambio di strategia

“I cambiamenti climatici- dichiarano le associazioni – ci impongono poi di rivedere le strategie sul fronte dell’offerta andando oltre una visione novecentesca e meccanicistica del Capitale Naturale per arrivare a riconoscere l’importanza e l’utilità della funzionalità degli ecosistemi a partire da una maggiore attenzione alle falde. Infatti, il luogo migliore dove stoccare l’acqua è la falda, ogni qual volta ce n’è una. Tuttavia, l’ostacolo principale all’infiltrazione delle piogge nel suolo è dato da quel poderoso e capillare insieme di interventi umani messi in atto da secoli, esasperati nei decenni scorsi e tuttora imperanti anche culturalmente, tanto da essere considerati simboli di civiltà e progresso. Per questo è fondamentale ripristinare tutte quelle pratiche che permettano di trattenere il più possibile l’acqua sul territorio e favorire azioni di ripristino della funzionalità ecologica del territorio e ripristino dei servizi ecosistemici. Al contempo occorre promuovere il riuso in ambito irriguo delle acque reflue”.

Le azioni chiave per una politica idrica che favorisca l’adattamento ai cambiamenti climatici, secondo le associazioni ambientaliste.

Cosa promette il governo su richiesta di Coldiretti e Abi

Il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) varato dal governo Draghi ha previsto uno stanziamento di 900 milioni di euro per la riduzione delle perdite delle reti idriche e di 880 milioni per rendere più efficiente la gestione dell’acqua. Soldi che in parte serviranno a realizzare la proposta dall’Associazione nazionale dei consorzi per la gestione e la tutela del territorio e delle acque irrigue (Anbi): “Bisogna innanzitutto – spiega Massimo Gargano, direttore generale dell’associazione – provvedere alla manutenzione e al completamento  dei bacini esistenti, nonché  contestualmente avviare un Piano nazionale invasi multifunzionali medio-piccoli”. L’obiettivo è la realizzazione di 1.000 bacini entro il 2030.  Secondo Maurizio Giugni, docente di Costruzioni idrauliche e marittime e idrologia all’Università Federico II di Napoli e commissario straordinario per la depurazione, “il piano è interessante, ma è chiaro che bisognerebbe fare uno studio di carattere idrologico e poi trovare finanziamenti e partire con l’esecuzione delle opere. Poi c’è sempre un problema di utilizzazione. L’acqua va convogliata poi nell’area da irrigare. E tutto questo ha dei costi”.

L’esempio di Israele

Al di là del piano, però, c’è una questione che riguarda la capacità di proiettare nel futuro infrastrutture e tecnologie che vanno pensate apposta per il contrasto alla siccità. Gli esempi non mancano, basta distogliere per un attimo lo sguardo dalla terra spaccata nelle coltivazioni italiane e rivolgerlo in Medio Oriente, per la precisione in Israele, dove nonostante un clima ben più arido e la storica carenza d’acqua, il problema sembra essere stato risolto egregiamente.

I dissalatori, come funzionano

A Sud di Tel Aviv c’è l’impianto di desalinizzazione più grande al mondo, che permette di trasformare in acqua potabile quella prelevata dal mare al costo più economico per questo tipo di operazione, circa 50 centesimi di euro al metro cubo. Come funziona? L’acqua del Mediterraneo viene aspirata da grossi tubi e poi filtrata attraverso membrane super tecnologiche, in modo da depositarla filtrata in grossi silos. I residui vengono restituiti al mare, sotto forma di salamoia, una sostanza salmastra molto salina, che secondo alcuni studi rischia però di alterare l’equilibrio ambientale e andrebbe trattata come rifiuto speciale da smaltire in altro modo. Con questa tecnica, grazie anche ad altri impianti simili dislocati per tutto il paese, Israele copre il 40% del fabbisogno nazionale e conta di arrivare al 70% nel 2050. Secondo l’International desalination association, oggi oltre 20mila impianti in tutto il mondo portano acqua potabile a trecento milioni di persone. La gran parte di questi si trova nel Golfo Persico, anche se il primo in assoluto, risale al 1965 ed è stato costruito in California.

E in Italia?

In Italia, ad oggi, grazie ai dissalatori presenti nelle isole (ma anche Toscana e Lazio hanno iniziato a dotarsene) si ottiene solo lo 0,1% dei prelievi idrici complessivi. Il costo è molto più alto che in Israele, 2-3 euro a metro cubo, comunque più economico che trasportarla con autobotti. Il governo, approvando la legge Salva mare (la n. 60 del 17 maggio 2022) se n’è occupato con un approccio critico: aumentando la burocrazia e aprendo a nuovi impianti solo in caso di comprovato bisogno e di azione preventiva sull’efficienza della rete idrica, per evitare di investire in impianti che pompano in tubature colabrodo.

La rete idrica colabrodo

Nel nostro paese, secondo l’Istat, nel 2018 veniva disperso il 42% dell’acqua trasportata dalla rete di distribuzione. Per il professor Giugni “la strada maestra è quella di fare degli interventi manutentivi che richiedono tempi limitati. Una buona parte del nostro patrimonio idraulico è obsoleto”. E così torniamo al buon esempio di Israele: il paese è anche al primo posto, e per ampio distacco, tra quelli che riescono a recuperare le acque già usate. Qui la percentuale di recupero tocca l’86% del totale, con la Spagna, al secondo posto, ferma al 17%. L’opera di recupero riesce a coprire più della metà delle necessità dell’agricoltura, grazie anche all’utilizzo virtuoso dell’irrigazione a goccia. Con questo metodo, infatti, l’acqua non viene spruzzata sulle piante in maniera indistinta, finendo in parte sulle foglie e in aree non utili, ma direttamente sulle radici del vegetale, con un monitoraggio costante del livello di umidità che rende possibile modulare l’utilizzo in base ai reali bisogni.

Il recupero delle acque reflue

Già il recupero delle acque reflue sarebbe un buon punto di partenza da noi. “Però – spiega Giugni – anche lì ci sono una serie di problemi. In primis, allo Stato manca un quadro ancora assolutamente certo della normativa. C’è un regolamento europeo che dovrebbe entrare in funzione nel 2023 e dovrebbe mettere ordine. Poi c’è un problema, questo posso dirlo per esperienza diretta di commissario, legato alla caratterizzazione delle esigenze irrigue che a volte sono dichiarate, ma non reali. Nel territorio non c’è sempre chi ha bisogno del refluo depurato. Non ci sono degli incentivi particolari. E poi c’è un problema di fattibilità, in molti casi, il refluo è disponibile a una certa distanza dall’area legale e questo comporta la necessità di opere di convogliamento, con i relativi costi”.

Intanto, il nostro paese è stato multato da Bruxelles perché scarichiamo a mare liquame non trattato, perché mancano impianti di depurazione o peggio ancora perché non sempre è presente addirittura un sistema fognario. Non solo sprechiamo quello che è ormai chiaramente un vero e proprio “oro blu”, ma finiamo per inquinarci l’ambiente.