Quando finirà davvero la pacchia del caporalato nelle nostre campagne?

Servivano quelle dodici giovani vite stroncate sulla Strada statale 16, vicino a Foggia, su un furgone che si è schiantato contro un Tir, per tornare a parlare di caporalato, di filiera sporca, di quella vergognosa pratica schiavista che abbiamo tra le mura di casa nostra e che macchia tanti gioielli del made in Italy, dalle arance ai pomodori?
No che non serviva la seconda tragedia in pochi giorni (il 4 agosto erano morti altri 4 braccianti stranieri in un incidente simile, sempre nel foggiano) per raccontare quel fenomeno che giornali come il nostro, associazioni e sindacati denunciano da anni.
Eppure non si può ignorare che l’emozione della mattanza foggiana del 6 agosto abbia riacceso i riflettori su un fenomeno su cui si sarebbe voluto stendere la coperta (troppo corta) dell’oblio. Tanto da spingere il ministro dell’Interno Matteo Salvini – lo stesso che aveva annunciato che la legge contro il caporalato complicava la vita alle imprese – ad annunciare controlli a tappeto.
Staremo a vedere quanti controlli, nei confronti di chi e per quanto tempo. Non vorremmo assistere a qualche sgombero a effetto nei confronti delle baraccopoli che sono l’ufficio di collocamento di molti big dell’agricoltura italiana, tanto per dare la sensazione che qualcosa si fa, con selfie e tweet annessi.
Pochi giorni prima, era rimbalzata sui media la denuncia della Ong Terra! di un altro fenomeno aberrante di quel rapporto tra lavoro della terra e mercati su cui vale la pena riflettere. Eurospin avrebbe acquisito 20 milioni di bottiglie di passata di pomodoro a 31,50 cent l’una tramite un’asta on line al doppio ribasso. Il meccanismo, lanciato dal discount, consiste nell’assegnare il contratto di fornitura all’azienda che offre il prezzo inferiore dopo due gare, in cui la base d’asta della seconda è il prezzo minore raggiunto durante la prima. Terra! lo definisce “Un meccanismo che costringe le industrie di trasformazione del pomodoro a una forte competizione, al punto da spingerle a vendere sottocosto un prodotto che sovente non è ancora stato acquistato dalla parte agricola. In questo modo, prima della stagione di raccolta, i supermercati decidono il prezzo del pomodoro e di altri prodotti alimentari: tutta la contrattazione che segue tra industriali e agricoltori è destinata a muoversi entro questi parametri, spesso con possibilità di margine estremamente ridotte”.
Ha senso legare queste due notizie?
Secondo noi esiste un filo logico, utile non certo per giustificare chi ricorre al caporalato per contenere i prezzi di produzione, semmai per allargare il campo delle responsabilità al di fuori delle campagne e al di là degli interessi (che pure ci sono) della criminalità organizzata. Ci sono le colpe della grande distribuzione e delle industrie che su quelle braccia impiegate anche per 12 ore di lavoro massacrante, senza diritti, fanno affari.
Resta ancora un attore del mercato: il consumatore. Ha anche lui una parte di responsabilità in questo moderno schiavismo?
Questa domanda non possiamo non porcela senza ambiguità.
La risposta è stata, già tre anni fa, molto netta: dateci gli strumenti per conoscere e scegliere liberamente. Era uno dei punti qualificanti della campagna Filiera sporca, forse uno di quelli più ignorati dai produttori. Si chiedevano, è bene ricordarlo, “etichette narranti” per informare il consumatore con trasparenza sulla “provenienza delle materie prime, sul rispetto delle norme sul lavoro agricolo e sui passaggi di filiera”.
In pochissimi hanno dato risposte convincenti in tre anni. Segno che – per loro sì – la pacchia degli affari sporchi non è mai finita.