Il burger vegano di McDonald’s non decolla: rimandato il lancio globale

burger vegano

Il burger vegano McPlant alimentato con proteine ​​di piselli, sviluppato con Beyond Meat ha ottenuto risultati deludenti nei test avviati in un campione di punti vendita McDonald’s sparsi per gli Usa. Approfondiamo anche l’alternativa della carne coltivata in laboratorio su cui puntano tanti big, tra pro e contro…

 

Diversificare per allargare la clientela anche al crescente mercato vegano: un imperativo per tanti, ma nel caso di McDonald’s più facile a dirsi che a farsi. Il burger vegano McPlant alimentato con proteine ​​di piselli, sviluppato con Beyond Meat, uno dei primi marchi arrivati sul mercato delle alternative vegetali alla carne, ha ottenuto infatti risultati deludenti nei test avviati in un campione di punti vendita McDonald’s sparsi per gli Usa. A dirlo è Peter Saleh, amministratore delegato e analista di ristoranti presso Btig, colosso della finanza Usa.

Il test andato male

Come riporta FoodNavigator, in una nota recente, Saleh ha affermato che gli analisti di Btig hanno visitato i luoghi di McDonald’s in cui il burger vegano McPlant è in fase di test e hanno raccolto feedback degli affiliati. Secondo Saleh, gli operatori nei primi test del McPlant in otto località (a partire dalla fine del 2021) vendevano circa 70 hamburger a base vegetale al giorno, innescando un lancio più ampio in 600 località a partire da metà febbraio. Tuttavia, i recenti controlli dei canali indicano che gli operatori vendono circa 20 hamburger McPlant al giorno a Dallas e San Francisco e solo da tre a cinque hamburger al giorno in alcune aree rurali del Texas orientale. Cifre che “non sono sufficienti per garantire un lancio nazionale”. “Ci aspettiamo che sia McDonald’s che Beyond Meat continuino a modificare il prodotto e il marketing”.

La clientela tipo del burger vegano

Il burger vegano di McDonald’s “sembrava attrarre maggiormente una clientela femminile nelle comunità più ricche”, ha affermato Saleh, che ha aggiunto: “Secondo noi, affinché McPlant sia più onnipresente, il prezzo deve essere più competitivo con gli hamburger tradizionali e la salute e i benefici per il clima devono avere maggiore enfasi”, e il colosso del fast-food “potrebbe continuare a testare e persino offrire McPlant nei mercati urbani a reddito più elevato che sembrano più ricettivi alle offerte di carne a base vegetale”, ma a questo punto un lancio su larga scala sembra lontano.​

Un mercato che altrove cresce

Secondo quanto dichiarato dal Ceo di Beyond Meat Ethan Brown, McDonald’s ha lanciato il burger vegano McPlant in “ogni ristorante di McDonald’s nel Regno Unito e in Irlanda, quasi 1.500 negozi”, mentre i Beyond Italian Sausage Crumbles sono ora nel menu permanente a livello nazionale in oltre 450 sedi di Pizza Hut Canada.

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L’alternativa della carne coltivata

L’altra alternativa, oltre al burger vegano, su cui i produttori stanno investendo miliardi su miliardi è quella della carne coltivata in laboratorio. Bill Gates, per esempio, è una delle personalità della finanza mondiale che più punta a questa strada per ridurre il consumo di carne e gli effetti sull’ambiente ad esso connesso, e persino l’Ue ne sta finanziando la ricercaHanna Tuomisto, punto di riferimento del centro di ricerca della Commissione europea da anni si occupa dell’impatto ambientale di agricoltura e allevamenti. Al Salvagente spiega come nasce la carne sintetica e che prospettive può avere.

L’esperta: l’importanza della ricerca

“È chiaro che l’umanità non può continuare sulla strada dell’incremento del consumo di alimenti di origine animale. Dobbiamo invertire la tendenza e orientarci verso diete a base vegetale. La carne coltivata non risolverà l’intero problema, ma potrebbe essere una parte della soluzione in futuro”. Ne è convinta Hanna Tuomisto, professoressa associata all’Università di Helsinki – e anche “riferimento” sul tema per il Joint research center, il centro di ricerca della Commissione europea –  da tempo impegnata in progetti di ricerca dedicati agli impatti ambientali dell’agricoltura, alla valutazione del ciclo di vita (Lca), all’agricoltura sostenibile e sistemi alimentari, all’agricoltura biologica, e, appunto, alla carne coltivata (carne in vitro).

I vantaggi

“Poiché le proprietà della carne coltivata sono simili alla carne degli animali – puntualizza Tuomisto – potrebbe essere più facile per i consumatori passare all’uso di carne coltivata, piuttosto che iniziare a mangiare solo alimenti a base vegetale. Inoltre, a causa di limitazioni dietetiche, alcune persone potrebbero non essere in grado di mangiare i legumi, quindi la carne coltivata potrebbe essere un’opzione per loro”. Tuomisto, con altri scienziati, ha partecipato anche all’ultima conferenza internazionale dedicata alla carne coltivata, la Fifth International Conference on Cultured Meat, che si è tenuta “in presenza” a Maastricht nell’autunno del 2019, appuntamento annuale che coinvolge circa 150 invitati tra ricercatori, enti finanziatori, investitori e aziende.

Come viene prodotta

La ricercatrice spiega come nasce la “fettina” sintetica: “Viene prodotta coltivando cellule animali in un liquido che contiene tutti i nutrienti di cui le cellule hanno bisogno. Le cellule originali sono prese, ad esempio, da un tessuto muscolare di un animale vivo, quindi non è necessario ucciderlo. Queste cellule vengono prima lasciate moltiplicarsi, in modo che un piccolo numero di esse possa produrre grandi quantità di carne. Pertanto, attraverso questa produzione, sarebbero necessari sostanzialmente meno animali da mantenere per ottenere un numero di cellule sufficienti, rispetto alla situazione attuale”. Ma una delle domande dirimenti rispetto a questo tema sta nello stabilire se davvero abbiamo necessità di produrre questa alimento da laboratorio.

Cosa manca

Per Tuomisto la risposta è semplice e sta nella convinzione che la tendenza all’incremento del consumo di carne debba cambiare per la salvaguardia dell’ambiente: “La produzione animale contribuisce a circa il 15% delle attuali emissioni di gas serra a livello globale. La carne coltivata  – fa sapere la scienziata –  potrebbe aiutare a ridurre le emissioni, se sarà possibile aumentare la produzione in modo efficiente. Tuttavia, dobbiamo ricordare che lo sviluppo della produzione di carne coltivata è nelle fasi iniziali e ci vorranno ancora più di dieci anni prima che questo alimento sia ampiamente disponibile”. Adesso, comunque, per intervenire sul cambiamento climatico “è essenziale ridurre le emissioni”. Quindi, “l’umanità non avrà il tempo di aspettare che la carne coltivata risolva i problemi: si dovrà, semmai, immediatamente lavorare su una significativa riduzione delle emissioni. Ciò significa che la carne coltivata non può essere una risposta ai problemi urgenti che stiamo affrontando, ma può fornire benefici in futuro”.

Vertical farming

Di certo la sfida che i sistemi alimentare devono affrontare è grande: Tuomisto inquadra il contesto in un articolo scientifico – Vertical farming and cultured meat: immature technologies for urgent problems – sottolineando che l’obiettivo comune deve essere quello di garantire un’alimentazione sana e sostenibile per una popolazione in crescita e sempre più ricca, tenendo conto del fatto che diminuisce la disponibilità di suolo e peggiorano le condizioni climatiche. “È necessario – si legge nel paper – un aumento dal 25% al 70% dell’offerta globale entro il 2050 per soddisfare la domanda di cibo prevista. Attualmente, i sistemi alimentari sono tutt’altro che sostenibili: sono responsabili di un quarto dei gas serra globali (Ghg) emissioni, di cui il 60% può essere attribuito alla sola produzione zootecnica. Insieme, l’agricoltura e la produzione animale contribuiscono anche all’85% circa delle emissioni di azoto e al 90% di fosforo, all’80% del cambio di destinazione d’uso del suolo, al 70% all’uso dell’acqua e all’80% della perdita di biodiversità: si stanno spingendo i confini del pianeta al limite”, l’allarme lanciato. “Se non implementiamo cambiamenti drastici nel modo in cui produciamo e consumiamo cibo, e in assenza di soluzioni trasformative, le conseguenze per l’ambiente e la salute umana saranno disastrose”.

Troppi interessi privati

Questo, dunque, è il contesto all’interno del quale – secondo la professoressa Tuomisto – la carne coltivata può avere un ruolo importante. Ciò non significa che esistano solo lati positivi perché la tecnologia legata a questa produzione richiede l’impiego di quantità maggiori di energia che, ad esempio, l’uso della luce a led potrebbe mitigare. Un rammarico c’è: la ricerca pubblica è ancora carente in questo settore, per la scienziata. “La mancanza di ricerca pubblica rallenta la velocità di sviluppo perché i risultati delle indagini svolte nelle start up non sono disponibili ad altri sviluppatori tecnologici. Inoltre, non è detto che le motivazioni delle società private siano necessariamente in linea con l’obiettivo che vuole tendere al miglioramento della sicurezza alimentare globale; i privati, insomma, potrebbero concentrarsi maggiormente su profitti elevati e sul targeting di mercati più ricchi”.

I passi ancora da fare

Di strada da fare ce n’è ancora. Intanto il Giappone qualche passo avanti lo ha fatto: “Penso che si tratti di una ricerca interessante e in effetti potrebbe aiutare l’accettazione dei prodotti da parte dei consumatori – afferma la ricercatrice finlandese – una consistenza dell’alimento più vicina alla carne che si è abituati a mangiare. Tuttavia, sono necessari molti più studi prima che questi prodotti siano disponibili in commercio. E sono necessari soprattutto più progetti di ricerca finanziati con fondi pubblici, in modo che i risultati siano pubblicati e altri ricercatori possano trarre vantaggio dai risultati. Ciò aiuterebbe a far avanzare il campo più veloceme