Lavoro grigio, assenza di contratti, sfruttamento sessuale, violenza ed emarginazione. Lo sfruttamento dei lavoratori nelle campagne è sempre più una questione europea. A raccontarlo è la nuova indagine sul campo, Terra!, “E(U)xploitation. Il caporalato: una questione meridionale. Italia, Spagna, Grecia”, il nuovo rapporto dell’associazione ambientalista Terra!. Il dossier racconta la dimensione continentale dello sfruttamento del lavoro in agricoltura, mettendo in evidenza i vuoti normativi, lo squilibrio nel potere di mercato e la debolezza dei controlli nelle filiere di importanti produzioni dell’Europa mediterranea. Il rapporto è un lavoro collettivo che raccoglie inchieste sul campo svolte in tre paesi chiave per l’agricoltura comunitaria: Italia, Spagna e Grecia.
In Italia la giungla dei contratti
A minare lo sviluppo del comparto in Italia, casi di distorsione del lavoro regolare e dei contratti, che costringono i lavoratori a condizioni di vita indecorose. Il lavoro a cottimo è particolarmente presente nell’Agro Pontino, dove i pagamenti sono erogati in base ai “mazzetti” di ortaggi raccolti, che seguendo tabelle del tutto informali, vengono poi convertiti in giornate lavorate. Il fenomeno dei “falsi braccianti” e delle “imprese intermediatrici fittizie” è invece presente perlopiù nel Foggiano. Queste imprese, che non svolgono attività agricola, hanno il compito di inserire negli elenchi agricoli persone che, pur non essendo braccianti, riescono ad accedere ai sussidi dell’Inps. Ma è il lavoro grigio la piaga più presente al Sud. Si basa su un tacito – e spesso obbligato – accordo tra il lavoratore e l’imprenditore agricolo: l’imprenditore si assicura un lavoro continuativo tutto l’anno, ma non registra mai più di 180 giornate, oltre le quali sarebbe obbligato a contrattualizzarlo. In questo modo, paga meno tasse e costringe il lavoratore in una condizione di subalternità. Quest’ultimo, dal canto suo, potrà godere degli ammortizzatori sociali previsti grazie a un numero di giornate registrate che però, spesso, è di molto inferiore a quelle effettivamente svolte. Per le giornate che eccedono, sarà retribuito in modo informale.
Spagna, un colonialismo legale
In Spagna, il rapporto indaga il sistema di impiego dei braccianti in agricoltura ad opera delle società di servizi e delle agenzie di lavoro interinale (Ett, nella sigla in spagnolo), che, in un sistema con una forte presenza di grandi produzioni intensive, hanno assunto un’importanza sempre maggiore. Uno dei campi d’indagine è Murcia, che con i suoi quasi 470.000 ettari di terreni agricoli, è anche nota come la “huerta de Europa”, l’orto d’Europa. Si tratta della terza regione in Spagna per volume delle esportazioni all’estero di frutta e ortaggi freschi, con un totale di 2,5 milioni di tonnellate (solo dietro all’Andalusia, 4,5 milioni, e la Comunidad de Valencia, 4,05 milioni). Attualmente i contratti tramite le ETT rappresentano oltre il 55 per cento del totale dei nuovi contratti in tutti i settori nella regione. Il comparto che più pesa in questa percentuale è quello agricolo: dei 490 mila contratti firmati nel 2019 nel settore, 366.000 sono stati fatti tramite ETT, quasi il 75 per cento. Cifre denunciate dai principali sindacati spagnoli, come CC OO e UGT, che accusano le imprese di non volere oneri e di affidarsi, per questo, alle ETT, che sarebbero obbligate per legge ad applicare il contratto collettivo di settore, cosa che non avviene quasi mai. Il reclutamento spagnolo è diventato un modello europeo: la cosiddetta contratación en origen, il reclutamento diretto di lavoratori in paesi terzi, quasi completamente assorbito dalle migliaia di contratti fatti in Marocco per portare manodopera a Huelva, la provincia andalusa dove si concentra la quasi totalità della produzione nazionale di fragole, di cui la Spagna è primo esportatore mondiale. Un sistema che nasconde tante zone grigie, a cominciare dalla forte discriminazione di genere nei confronti delle lavoratrici marocchine, sottoposte a sfruttamento e violenze fisiche.
L’uberizzazione del lavoro agricolo
Il tutto si innesta su un sistema agricolo affetto da quella che l’organizzazione di produttori COAG ha definito “uberizzazione”, cioè dalla concentrazione del potere e ricchezza in oligopoli, a cui corrisponde sempre più “un’agricoltura senza agricoltori”. Poche grandi imprese infatti – appena il 6,5 per cento dei proprietari di aziende agricole contro il 94,5 per cento di persone fisiche – catalizza il 42 per cento del valore della produzione. L’impoverimento progressivo degli agricoltori, dunque, li spinge a comprimere dei costi di manodopera bracciantile per mantenere la competitività. Nel frattempo, in un processo di integrazione verticale, le grandi società finanziate da fondi di investimento spingono un numero crescente di agricoltori a rifornirsi presso di loro di tutto il necessario, dalle sementi ai pesticidi, fino alle consulenze. La relazione da un lato presenta i benefici di un legame commerciale stabile e con un rendimento garantito, dall’altro si basa su una dipendenza che, soprattutto nei casi di aziende dedicate solo a un tipo di prodotto, lascia nelle mani dell’impresa integratrice la gestione della produzione, mentre tutti i rischi sono sulle spalle dell’agricoltore.
Grecia, sfruttamento senza controllo
In Grecia, l’indagine parte da Manolada, la regione meridionale nota per la coltivazione di fragole, dove nel 2013 il proprietario di un’azienda aprì il fuoco contro alcuni lavoratori di origine bengalese. Nel Paese, il 90% della manodopera del settore agricolo è composto da migranti, la maggior parte dei quali lavora in modo informale, viene pagata in nero e non è assicurata. Per anni, i gruppi distributivi e gli importatori di altri Paesi UE si sono preoccupati più della soglia di qualità e dei protocolli di produzione, che degli standard sociali e lavorativi. Le maggiori criticità si rintracciano nell’assenza di controlli. Fotiadis raccoglie l’intervista sotto anonimato ad un ex agente del Sepe, l’Unità greca di ispezione del lavoro, che denuncia la mancanza di un adeguato sistema di verifiche nelle aziende agricole. L’istituto, che lavora sotto vigilanza del Ministero del Lavoro, legalmente ha il mandato di controllare l’intero settore privato. Nella pratica però esso non riesce a controllare molto nella produzione agricola perché non ha gli strumenti adeguati. Tutto dipende dalle dichiarazioni di impiego dei lavoratori, spesso opache. I lavoratori appaiono nel database solo quando i datori di lavoro acquistano un voucher (Ergosimo) assicurativo a loro nome. La legge 4635/2019 prevede che ogni voucher sia dichiarato nel corrispondente sistema telematico (Ergani) del Ministero del Lavoro. Questo però non è ancora stato attivato, e inoltre, visto che i cedolini sono emessi sempre alla fine della prestazione lavorativa, questi potrebbero coprire un lasso di tempo più breve rispetto al periodo di lavoro effettivo.
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Una questione europea
“Lo sfruttamento del lavoro è una piaga connessa a un’economia di filiera fragile, che vive di informalità – dichiara Fabio Ciconte, direttore di Terra! – Questa è una realtà non solo nazionale, ma europea. Ecco perché chiediamo che l’Europa si faccia carico con maggiore determinazione delle condizioni sociali ed economiche dei lavoratori agricoli, costretti a vivere in condizioni di invisibilità e precarietà estrema”.
Il ruolo della Gdo
Tuttavia, per parlare di caporalato, c’è bisogno di risalire l’intera filiera agroalimentare e soffermarsi sulle pressioni che i soggetti più grandi esercitano sui più piccoli e deboli. Questo è il lavoro che Terra! svolge da anni, e che recentemente è finalmente entrato anche nella legislazione comunitaria. Le pesanti condizioni che la grande distribuzione organizzata impone ai fornitori sono infatti oggetto di una direttiva approvata dal Parlamento e dal Consiglio europeo (2019/633, la cosiddetta direttiva “pratiche sleali”), con l’obiettivo di delineare un quadro di riferimento comune a 27 legislazioni diverse. Entro il mese di maggio, gli Stati membri sono chiamati a recepirla.