Dna, doppio inganno dei test fai-da-te: dati inaffidabili e in mano alle aziende

Qualcuno l’ha battezzato “il business degli sputi”, ma battute a parte quello dei test del Dna è un campo maledettamente serio con implicazioni per certi versi inquietanti. Perché dietro ad un apparentemente inoffensivo test genetico inviato per posta ad un azienda che promette di ricostruire genealogie, provenienze geografiche della famiglia, lontanissime parentele e, in alcuni casi, predisposizioni a determinati tipi di malattie, c’è un giro di affari in costante crescita che fa gola a quelle grandi aziende tecnologiche che nell’uso dei big data sanitari hanno scoperto il nuovo eldorado tecnologico. Con applicazioni future difficili da prevedere e rischi per la privacy tutti da approfondire.

Kit fai-da-te per il prelievo della saliva

Quello dei test fai-da-te del Dna è un settore d’affari ancora poco diffuso in Italia che però negli Usa ha già raccolto un bacino di utenti impressionante: 12 milioni di persone che nel solo 2017 hanno acquistato, prevalentemente via web, un kit per il prelievo di un campione di saliva da inviare poi ai laboratori che in un periodo variabile fra le due e le otto settimane riconsegnano on line i risultati relativi, a seconda dei test, alla propria discendenza geografica, la storia della propria famiglia, i propri legami genetici o la possibilità di segni particolari fisionomici ricorrenti lungo il proprio albero genealogico. Alcuni di questi prodotti, poi, assicurano anche di poter individuare la possibilità di essere portatore sano di specifiche malattie e eventualmente di trasmetterle ai propri figli.

Sotto accusa l’affidabilità

È il caso, ad esempio, di “23andMe” (23 come le coppie di cromosomi presenti nelle cellule dell’organismo umano) fondata nel 2006 nella Silicon Valley da Anne Wojcicki con la partecipazione di Google. Nata con l’obbiettivo di favorire la ricerca genetica per arrivare alla messa a punto di farmaci più efficaci contro malattie come il Parkinson, l’Alzheimer e il cancro, la “23andMe” nei primi anni di vita ha raccolto oltre 100 milioni di dollari ma ha poi rischiato il fallimento dopo una lunga battaglia legale con la Fda, la Food and Drug Administration, l’agenzia governativa statunitense che si occupa di regolamentare i prodotti per la salute, che ne aveva messo sotto accusa l’affidabilità delle analisi predittive e i loro effetti sulla disponibilità dei pazienti a sottoporsi a terapie. Risolta la controversia, “23andMe” ha messo insieme un database di oltre 7 milioni di Dna esaminati e punta a raggiungere la soglia dei dieci milioni entro pochi anni.

“L’Italia è un mercato chiave”

Nel frattempo, però, l’azienda californiana deve fare i conti con una concorrenza che sta rosicchiando fette di mercato importanti. Come quella di “FamilyTreeDna”, azienda statunitense che nel 2017 ha raggiunto tre milioni di clienti promettendo di trovare legami genetici con altre persone e rintracciare membri della famiglia, o di “MyHeritage”. Quello dell’azienda israeliana, infatti, a suo modo è un case history: nato come social network che si prefiggeva di mettere in contatto parenti e membri sconosciuti delle stesse famiglie disperse nel mondo, nel 2017 ha incassato 133 milioni di dollari (contro i 60 del 2016, primo anno di lancio dei prodotti di analisi genetica) vendendo fra l’altro circa un milione di kit per il test del Dna e impiegando oltre 200 persone nel solo team scientifico. “L’Italia è un mercato chiave per MyHeritage e gli italiani sono molto interessati a saperne di più sulla loro storia familiare. Per quanto riguarda il numero di utenti italiani di MyHeritage sono oltre 1,4 milioni” spiega l’azienda secondo la quale si tratta però “sia di utenti che hanno inviato i loro dati genetici, sia di quelli che si sono registrati” nel social network “per costruire il loro albero genealogico e accedere ai record storici”. Altri prodotti noti, sempre compresi in una fascia di prezzo che varia dai 50 ai 150 dollari a seconda delle analisi eseguite, sono quelli di “AncestryDna” (che si occupa soltanto di alberi genealogici) e  “Geno 2.0” del National Geographic.

Soro (Privacy): “Dubbi sulla validità medica”

Quello però che pubblicità e video su Youtube non raccontano è il lato oscuro di questa “schedatura” massiva genetica. Un rischio che nelle scorse settimane ha richiamato l’attenzione anche del Garante della Privacy Antonello Soro. “Le indagini genetiche fai- da-te, offerte on line da società commerciali anche nell’ambito di servizi di social networking, suscitano legittimi interrogativi sulla loro reale affidabilità, non solo dal punto di vista delle garanzie in termini di protezione dei dati personali e di corretto utilizzo dei campioni raccolti per eseguire il test, ma anche in termini di validità medico-scientifica dei risultati”, ha infatti commentato. “Alla superficialità e alla scarsa consapevolezza degli utenti – è l’avvertimento – si contrappongono gli interessi economici, qualche volta opachi, dei gestori delle piattaforme digitali, generalmente stabilite al di fuori dell’Unione europea, alle quali fino a poco tempo fa non erano applicabili le nostre regole sulla circolazione e la protezione dei dati genetici”.

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A rischio la riservatezza dei risultati

A fugare i dubbi, poi, non contribuiscono certo le note informative sul servizio offerte dai vari siti. Indicazioni spesso confuse e comunque poco puntuali soprattutto per quanto riguarda l’uso e la gestione dei dati genetici e personali degli utenti in caso di cessione delle aziende o l’accesso di fornitori di terze parti alle informazioni sensibili. “Inviando un campione di materiale biologico per posta, dopo aver acconsentito al trattamento mediante un banale consenso online – ha spiegato ad AdnKronos Salute Riccardo Giannetti, Scheme Manager di Inveo, organismo accreditato per la certificazione della data protection, e presidente dell’Osservatorio 679, che prende il nome dalla General data protection regulation (Gdpr), ossia il Regolamento europeo per il trattamento di dati personali – si consegnano i propri dati genetici, oltre alla nostra identità, a un soggetto che non si sa quale uso potrà farne. Si tratta di dati ai quali viene anche associata una persona, non anonimi quindi. Una cosa di una gravità inaudita – ha commentato – che richiede molta attenzione”. Per l’esperto, “ancora più inquietante che dati di tale portata siano alla mercé di qualunque società che in un futuro possa acquisire la ditta erogatrice del servizio, senza alcuna possibilità per il soggetto di esercitare un controllo sui dati genetici e personali suoi e dei suoi eventuali familiari. Ci siamo preoccupati del caso Facebook e Cambridge Analytica – ha concluso – ma questo fenomeno è ben più preoccupante”.

Le società in difesa

Rischi che, dal canto suo, MyHeritage ha provato a fugare spiegando “di prendere ogni precauzione per proteggere le informazioni personali. Utilizziamo una memorizzazione sicura dei dati e impieghiamo più livelli di crittografia sofisticata. Inoltre, al contrario di altre società MyHeritage non venderà né darà in licenza i dati del Dna a terze parti senza il consenso esplicito dell’utente, di cui non “possediamo” il Dna in alcun modo. Solo l’utente ha accesso ai dati grezzi e può richiederne l’eliminazione in qualsiasi momento”.