Expo2015: e se dicessimo “Mai più pesticidi”?

Un cibo Sano, Sostenibile e Sufficiente per tutti. È all’insegna delle 3S che si presenta l’Expo 2015, l’esposizione planetaria di Milano che tanto fa e farà discutere anche dopo l’apertura del 1° maggio.
Convitati di pietra di questa grandissima e ricchissima vetrina internazionale, tanti dei temi che interessano i consumatori di tutto il pianeta. Ovviamente anche quelli italiani.
Uno fra tutti quello dei pesticidi, sostanze che fanno grandi fatturati di pochissime multinazionali e che tanto in agricoltura quanto nell’alimentazione planetaria sono guardati con legittimo sospetto.
Carlo Modonesi, professore di Ecologia umana all’Università di Parma, da sempre si occupa di queste sostanze, dei loro effetti sull’ambiente e sull’uomo, della loro pericolosità e delle alternative. Lo avevamo incontrato a settembre per un’intervista per il Salvagente. Ne riproponiamo i passaggi più significativi. Partendo da un quadro italiano in movimento.
“L’Italia ha recepito la direttiva europea sull’uso sostenibile di pesticidi – anche se l’uso sostenibile di sostanze tossiche è francamente una contraddizione in termini – e molti Comuni si sono organizzati, riuscendoci a volte, per stilare piani ambientali di utilizzo di fitofarmaci. È il caso dell’ottimo lavoro, per esempio, del Comune di Malosco,  in Trentino. L’esigenza, dunque, è sentita da tempo. È una macchina che si sta muovendo molto lentamente, ma qualche risposta positiva all’uso e all’abuso di sostanze tossiche (io penso più all’abuso) la sta fornendo”.
Eppure, professor Modonesi, restano forti le reazioni negative di alcuni agricoltori.
In realtà gli agricoltori sono molto diversi tra loro. Io giro spesso, soprattutto al Nord, per parlare di pesticidi e mi trovo di fronte a chi non vuole abbandonare l’uso intensivo della chimica di sintesi, a imprenditori che si stanno rendendo conto che i pesticidi non garantiscono quello che promettono e ad altri che hanno abbandonato i fitofarmaci da moltissimi anni. Parlo, per esempio, del Parco agricolo Sud, una delle più grandi aree agricole d’Europa che crea una specie di ferro di cavallo intorno a Milano. Lì negli ultimi vent’anni c’è stata la conversione di una parte dell’agricoltura verso il biologico, il biodinamico. La stessa divergenza di opinioni si registra anche tra le associazioni degli agricoltori: c’è Coldiretti, che forse ha anticipato i tempi sugli Ogm e sta cominciando, con cautela, a rendersi conto che i pesticidi non sono il futuro dell’agricoltura italiana, e c’è Confagricoltura, a favore degli Ogm, che non vuole si riduca lo spazio ai pesticidi che già circolano in Italia. In mezzo c’è la Cia, con un atteggiamento, che certamente per limiti miei, non riesco a capire.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, il futuro dell’agricoltura?
Da anni, con altre persone di Isde Italia (International Society of Doctors for Environment), lavoro sui danni da pesticidi e per quanto ci riguarda vorremmo un cambiamento radicale, in particolare nell’agricoltura italiana ma non solo, visto che se le norme sono europee non possiamo considerarci un’isola felice. Sappiamo che l’eliminazione completa dei pesticidi, per quanto sia un nostro desiderio, è un’utopia nel giro di pochi anni, ma è necessario incamminarsi subito verso una strada che prevede un uso molto oculato dei pesticidi, eliminando quelli notoriamente riconosciuti come tossici. Non mi riferisco solo alle sostanze bandite fino a oggi, ma a tutte le molecole su cui esistono evidenze di danno verso l’ambiente e di pericolo per l’uomo, per tossicità acuta ma anche per danni a lunga latenza: soprattutto cancro e malattie neurodegenerative. Queste molecole dovrebbero essere vietate e si dovrebbe tenere sotto osservazione quelle di cui si sa poco o nulla. E bisognerebbe anche fermare il lancio di molecole nuove di cui non si conoscano bene gli effetti, né quelli ritenuti “positivi” per l’agricoltura, né quelli negativi per la salute ambientale e umana.
Professore, non basta la politica di sicurezza sui pesticidi della Ue?
I pesticidi hanno un mercato molto dinamico, continuamente ne vengono ritirati e immessi sul mercato di nuovi. Ma di questi ultimi non sappiamo spesso con quali conseguenze. La procedura per il lancio di un prodotto tossico per usco agricolo è fortemente criticata da molti ricercatori. Le autorizzazioni per l’Europa vengono rilasciate senza che l’Efsa possa fare sperimentazione per verificarne la tossicità. Ci si accontenta semplicemente dei report rilasciati dalle multinazionali che producono la molecola. Non metto in discussione il lavoro scientifico di test dell’industria chimica, ma non è così che dovrebbe funzionare. Non è giusto che non ci sia una valutazione di un ente terzo. Il problema, del resto, viene a galla quando nella fase successiva all’immissione in commercio i ricercatori si accorgono che queste molecole non sono così innocue come si voleva far credere.
E i tempi di reazione, non sembrano molto veloci…
Chi fa ricerca pubblica, soprattutto in questi anni, deve fare i conti con tutte le difficoltà economiche di questo settore. In più c’è la difficoltà legata a un numero di molecole in circolazione altissimo. In Italia – cito dati Istat di qualche anno fa ma immagino che le cose ora non siano molto diverse – circolano in agricoltura circa 600 molecole diverse e 7mila formulati commerciali. È difficilissimo riuscire a monitorare gli effetti di tutte queste sostanze. Bisognerebbe che un intero settore della ricerca pubblica si occupasse di questo. In realtà non si fa altro che un lavoro di controllo e monitoraggio dei residui sui campioni alimentari che copre soltanto una parte dei pesticidi che circolano.
In Italia, da questo punto di vista, siamo efficienti nei controlli?
Voglio dirlo in modo chiaro: il controllo dei campioni alimentari per la possibile contaminazione da pesticidi, in Italia viene fatto in maniera molto dettagliata e seria. Vorrei però sapere quanto ci costa questo lavoro. Se bloccassimo prima le molecole di cui non abbiamo sufficienti informazioni per poter dire che sono sicure, probabilmente questo enorme compito diverrebbe più facile, meno costoso e ci sarebbe maggiore sicurezza per gli alimenti.
Professore, lei fino a ora ha parlato di tossicità di ogni singola molecola. Ma cosa sappiamo dell’effetto cocktail, ossia della presenza nell’alimento di diverse molecole, anche se ognuna nei limiti di legge?
Non sappiamo praticamente nulla.
Un po’ sconfortante…
Esistono alcuni lavori, ma sono tutti di tossicologia sperimentale, ossia fatti in laboratorio. In laboratorio si può concludere che la multiesposizione ha implicazione negative per la salute, per esempio quelle di carattere immunitario, verificate da un ottimo studio uscito un paio di anni fa. Il problema è che questi rischi andrebbero valutati anche sulla popolazione con ricerche epidemiologiche. Difficilissime, nel metodo. Come si trova una popolazione non esposta per studiare la reazione al gruppo di molecole da studiare? È quasi impossibile: nessuno può considerarsi non esposto ai pesticidi. Una soluzione sarebbe studiare le popolazioni di agricoltori che usano i pesticidi nei loro campi, come si fa negli Usa, ma ci sarebbe il problema che una popolazione di agricoltori non è equiparabile a quella generale, anche per la forte esposizione a cui è sottoposta. Oltretutto queste sostanze, arrivano alle persone anche attraverso l’aria e l’acqua. In più una ricerca del genere sarebbe molto lunga e costosa.
Non servirebbe più cautela sugli alimenti che presentano – e non è un evento raro – un mix di pesticidi?
La mancanza di studi, al contrario, viene utilizzata per affermare che non abbiamo evidenze di tossicità sui rischi della multiesposizione. L’assenza di evidenze non deve diventare il grimaldello per dire che il rischio non esiste. Un giochetto subdolo che crea pericoli enormi per uomo e ambiente.
Cosa può fare un consumatore?
Informarsi. I canali oggi sono molti: c’è internet, ci sono siti molto attendibili. Dal punto di vista del consumo io le posso dire qual è la mia scelta: orientarmi verso un alimento che dia più garanzie di uno convenzionale. Biologico e biodinamico, dunque, preferibilmente a filiera corta perché anche gli agricoltori “ecologici” possano vedere riconosciuto economicamente il loro lavoro. Scelte che possono condizionare il mercato.