Spezie irradiate senza etichetta: cosa rivelano i controlli in Germania

IRRADIAZIONE

Dai controlli tedeschi emerge un problema europeo: spezie irradiate senza indicazione in etichetta. Una pratica legale ma controversa, tra sicurezza alimentare, rischi nutrizionali, possibili frodi e scarsa trasparenza per i consumatori

Cannella, anice, noce moscata, miscele per pan di zenzero e biscotti natalizi: sugli scaffali europei sono protagoniste delle feste, ma dietro il profumo rassicurante delle spezie può nascondersi un trattamento che il consumatore ha diritto di conoscere. I controlli effettuati in Germania lo dimostrano chiaramente: l’irradiazione degli alimenti continua a essere praticata, ma non sempre viene indicata in etichetta, come invece la legge impone.

Nel periodo che precede il Natale, il laboratorio centrale del CVUA di Karlsruhe, specializzato nel rilevamento dell’irradiazione alimentare, ha analizzato otto prodotti tra cannella in polvere, zucchero alla cannella e miscele di spezie per lebkuchen e spekulatius. In un caso su otto è stata rilevata la presenza di un trattamento con radiazioni ionizzanti. Il problema non è l’uso in sé – consentito dalla normativa europea per le spezie essiccate – ma il fatto che l’informazione non comparisse in etichetta.

Un’irregolarità tutt’altro che marginale: per i prodotti preconfezionati la legge impone che il trattamento venga esplicitamente indicato nell’elenco degli ingredienti. Eppure, come dimostrano i controlli tedeschi, questo obbligo viene ancora disatteso.

Un “miracolo” tecnologico o un trucco?

Una sorta di miracolo, fondamentale per evitare tossinfezioni pericolose per il consumatore, garantire alimenti incontaminati e limitare gli onerosi sprechi di cibo.

Un modo pericoloso di trattare gli alimenti senza la necessaria cura igienica, nascondendo l’inevitabile perdita di freschezza, per di più con l’aiuto di una tecnica che fa sempre paura, la radioattività che evoca disastri come quello di Chernobyl.

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Gli alimenti irradiati attraverso radiazioni ionizzanti derivanti da generatori di fasci di elettroni o da sorgenti radioattive, è uno di quei temi in cui si scontrano paure e certezze, sospetti e tranquillizzanti prese di posizione.

Il procedimento può essere impiegato per ridurre la contaminazione microbica di un alimento, eliminare germi patogeni, distruggere infestazioni da insetti e parassiti, prevenire la germinazione in vegetali. Il trattamento è permesso in Europa ed è regolato, in Italia, dal decreto legislativo 94 del 30 gennaio 2001 che ne limita l’impiego solo su una lista positiva di alimenti, tra cui erbe secche, spezie, patate, cipolle e aglio.

La dose massima di radioattività a cui possono essere sottoposti questi vegetali è di 10 kGy. Per qualunque prodotto sottoposto a irraggiamento si deve specificare il trattamento.

Alimenti irradiati, chi li ha visti?

Accanto alla denominazione di vendita, per legge dovrebbe comparire l’indicazione “irradiato” o “trattato con radiazioni ionizzanti”. Quando è solo una componente dell’alimento a essere stata sottoposta a radiazioni, la dicitura segue il nome dell’ingrediente; nel caso degli alimenti sfusi, deve figurare per mezzo di un cartello esposto sulla cassetta.

Eppure a guardare tra gli scaffali dei negozi italiani, di queste etichette non c’è neppure l’ombra.

Eppure, anche se meno che in passato, l’irradiazione continua a essere una pratica costante nell’Unione europea. Secondo l’ultimo rapporto comunitario che copre il 2018/2019, a subirla maggiormente sono le cosce di rana, che hanno costituito i due terzi dei prodotti irradiati in Europa. Ma chi non ama questo cibo non può dirsi tranquillo: il pollame rappresenta il 20,6% dei prodotti irradiati, mentre erbe aromatiche essiccate, spezie e verdure condite arrivano al 14%.

I raggi amati dal Belgio e invisi all’Italia

Le norme sugli alimenti e sugli ingredienti autorizzati per l’irradiazione nell’Unione europea non sono armonizzate. Alcuni paesi consentono il trattamento su frutta e verdura, cereali, spezie, pesce e crostacei, carni fresche, pollame, cosce di rana e persino camembert di latte crudo.

Alla fine del 2019 erano attivi 24 impianti di irradiazione in 14 paesi: cinque in Francia, quattro in Germania, due in Bulgaria, Paesi Bassi e Spagna, uno ciascuno in Belgio, Repubblica Ceca, Croazia, Estonia, Italia, Ungheria, Polonia, Romania e Regno Unito. Tuttavia, Bulgaria, Italia, Romania e Regno Unito non hanno irradiato alcun prodotto alimentare nel biennio 2018-2019.

Paradossalmente, proprio l’Italia – subito dopo la Germania – è tra i paesi che hanno effettuato più controlli per individuare i casi di irradiazione non dichiarata in etichetta. La maggior parte dei prodotti analizzati erano erbe e spezie, cereali, semi, ortaggi e frutta, ma anche integratori alimentari, zuppe e salse.

Una storia lunga, fatta di stop and go

Quella dell’irraggiamento degli alimenti è una storia lunga e controversa. Tra il 1945 e il 1965 l’industria lo guarda con entusiasmo, convinta di aver trovato la soluzione definitiva per conservare i cibi. I consumatori, però, non la pensano allo stesso modo e la tecnica subisce un lungo stop, travolta dall’avversione pubblica.

Nel 1981 torna alla ribalta grazie a uno studio congiunto di Fao, Iaea e Oms, che conclude come l’uso di radiazioni fino a 10 kGy non presenti problemi tossicologici, nutrizionali e microbiologici. Nel 1984 arrivano le linee guida internazionali: la strada è spianata e in pochi anni l’irradiazione viene adottata in 41 paesi su oltre 60 alimenti.

Dalla Cina agli Stati Uniti, dall’Unione europea alla Nuova Zelanda, gli impianti utilizzano soprattutto raggi gamma prodotti da cobalto 60 o cesio 137 per “scottare” i cibi. Il risultato è una sterilizzazione parziale che, in alcuni casi, equivale a una pastorizzazione; in altri, come per patate, aglio e cipolle, serve a inibire la germogliazione.

Quali rischi?

Non c’è da temere che i cibi sottoposti a irraggiamento diventino radioattivi. Ma i problemi sono comunque numerosi.

L’effetto delle radiazioni ionizzanti sulla materia vivente è solo parzialmente noto. Si sa che vengono prodotte sostanze pericolose, come ad esempio i radicali liberi dai grassi, che possono avere effetti dannosi sull’organismo. Gli esperti “pro” irraggiamento hanno sempre detto che si tratta di piccole quantità, ma i radicali liberi possono creare danni al nucleo delle cellule anche in minime dosi. Se la normale alimentazione ne è ricca, risulteranno maggiori le probabilità di un danno, comprese malattie degenerative come i tumori.

Le radiazioni ionizzanti provocano inoltre la distruzione di percentuali importanti di vitamine, in particolare la E e la C. A livello di produzione, resta il problema dello smaltimento delle scorie radioattive. E per molti alimenti non è possibile una sterilizzazione spinta, perché provocherebbe effetti collaterali tali da rendere comunque necessarie precauzioni nella conservazione successiva.

C’è poi un aspetto tutt’altro che secondario: l’irraggiamento può essere utilizzato a scopo fraudolento, perché consente di “bonificare” cibi che non sarebbero commestibili, come carni infette o granaglie infestati da parassiti. Una tecnologia costosa e non indispensabile, visto che risultati analoghi possono essere ottenuti con metodi tradizionali e con una maggiore attenzione all’igiene nella produzione degli alimenti.