Dopo il caso dell’allevatore texano contagiato dal virus dell’aviaria è scoppiato l’allarme per una nuova possibile pandemia. Abbiamo intervistato il virologo Fabrizio Pregliasco che ci ha spiegato come questi casi si verifichino da più di 30 anni e, al momento, restino relegati negli allevamenti. Il rischio di contagio sull’uomo è molto basso ma bisogna ostacolare la mutazione
Da qualche giorno si è tornati a parlare di aviaria. Il virus, tipico dei volatili, per la prima volta ha fatto il suo salto di specie nel lontano 1996, infettando diverse persone e provocando la morte di 6 vittime. Oggi è tornata alta l’allerta dopo che di recente in Texas il virus ha infettato un uomo che lavorava in un allevamento di mucche da latte, dove ha avuto contatti con bovini infetti. Per la prima volta nella storia di questo virus l’infezione è stata riscontrata su una mucca (e nel suo latte) e oggi ha già colpito diversi allevamenti in 5 Stati degli Usa. L’operatore agricolo ha riscontrato una congiuntivite acuta, ed è in isolamento, ma il rischio che dilaghi una nuova pandemia ci riporta indietro al periodo del Covid. Anche perché sono 30 anni che questo virus è considerato una minaccia. Il ceppo virale incriminato è l’H5N1, talmente tanto virulento che tra il 2022 e il 2023 ha provocato la morte o l’abbattimento di 450 milioni di volatili. Attraverso un sorprendente passaggio negli uccelli selvatici di tutto il mondo, ha infettato volpi, visoni, orsi polari e altri mammiferi come gli elefanti marini che, nella penisola di Veldés in Patagonia, a novembre 2023 hanno registrato un tasso di mortalità dei cuccioli del 96%, (contro l’1% del 2022) uccidendo 17.400 animali su un totale di 18mila nuovi nati.
L’allarme delle istituzioni internazionali
Nel 2022, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), 67 paesi in 5 continenti hanno segnalato focolai di influenza aviaria ad alta patogenicità H5N1 nel pollame e nei volatili selvatici, con oltre 131 milioni di capi da allevamento morti in seguito all’infezione o abbattuti per prevenirne la diffusione. Nel 2023, altri 14 Paesi hanno segnalato focolai, soprattutto nelle Americhe, e a febbraio 2024 ha raggiunto anche il continente antartico.
Di rischio di una trasmissione su larga scala parla anche il rapporto dello European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) e della European Food Safety Authority (Efsa), pubblicato il 3 aprile scorso, secondo cui la comprensione dei fattori che causano la pandemia dell’influenza aviaria è cruciale per ridurre i rischi per la salute umana. Tra i fattori esterni che possono aumentare l’esposizione di mammiferi e umani ai virus, si citano le pratiche agricole, l’uso delle risorse naturali, fattori climatici e ambientali. Bisogna garantire l’accesso a diagnosi rapide, promuovendo la collaborazione tra settori animali e umani, e prendendo in considerazione l’attuazione di misure preventive come la vaccinazione delle volatili e garantendo uno spazio adeguato tra l’allevamento di volatili e quello di animali da pelliccia, specialmente nelle aree ad alta densità di uccelli acquatici.
L’intervista al virologo Fabrizio Pregliasco
C’è già chi parla di una nuova possibile pandemia, vista l’elevata capacità di questo virus di riassortirsi con altri virus influenzali, accumulare mutazioni selezionando nuovi ceppi sempre più pericolosi. Visto che ad ogni nuovo contagio diventa sempre più probabile l’arrivo di un ceppo mutato capace di trasmettersi da uomo a uomo dobbiamo aspettarci davvero una nuova pandemia? Lo abbiamo chiesto al virologo Fabrizio Pregliasco, professore di Igiene all’Università degli Studi di Milano e direttore sanitario di azienda dell’IRCCS Ospedale Galeazzi – Sant’Ambrogio di Milano.
“Il primo episodio che ha fatto notizia di un contagio di infezione umana da influenza aviaria A(H5N1) risale al 1995, quando fu identificato ad Hong Kong. Ma sappiamo che ci sono stati tanti altri casi precedenti che non hanno toccato lo stesso livello di comunicazione internazionale. Studiando i vetrini risalenti al 1918, sembrerebbe addirittura che il virus dell’influenza Spagnola sia stato di natura aviaria. Ormai sappiamo che le pandemie possono derivare da virus animali che si modificano ed acquisiscono la capacità di diffondersi tra gli uomini, come nel caso di questo virus, o da mix di virus, come è avvenuto nel 2009 con l’influenza H1N1, erroneamente nota come suina, che si è allargata a causa di un mix di virus umano, suino e aviario che si sono ricombinati tra loro. Possiamo affermare che ogni virus ha una sua specie prediletta, perché si specializza con recettori specifici di quella specie, che sono diversi dagli altri”.
E allora perché ci infettiamo con virus che non sono nostri?
“Perché abbiamo la sfortuna di avere dei recettori in comune ad altre specie, che riconoscono lo stesso virus. Nel caso dell’aviaria abbiamo dei recettori simili a livello polmonare ed è per questo che se ci infettiamo abbiamo delle polmoniti molto forti. Per ora abbiamo soltanto casi di allevatori che si sono infettati, ma questo succede da più di trent’anni. Io spesso prima degli anni ‘90 avevo fatto delle indagini di prevalenza di anticorpi nel sangue degli allevatori da cui era emerso circa un 5-6% di positivi. Dove c’è un’esposizione massiva si verifica il contagio, ma attualmente il rischio di casi secondari, ad esempio di derivazione familiare, è molto basso. Anche perché tra gli allevatori l’attenzione è molto elevata perché il danno di un’influenza aviaria è alto. Le indicazioni sono quelle di abbattere tutti gli animali presenti nell’allevamento perché le vaccinazioni sono poco pratiche e non molto efficaci. Il virus che colpisce i polli provoca una malattia neurologica molto diversa rispetto al danno respiratorio che si verifica nell’uomo. Bisogna gestire meglio gli allevamenti intensivi, anche perché possono esserci commistioni che restano inosservate. Ma l’allarme resta confinato agli allevamenti e notizie come queste, che ci sono sempre state, anni fa non arrivavano ai media generalisti. Vediamola quindi con uno spirito positivo. L’allarme va gestito in termini di comunicazione perché oggi siamo tutti ipersensibili al tema, ma grazie alla rete di sorveglianza che abbiamo sviluppato durante il periodo del Covid teniamo sotto controllo il numero di contagi e abbiamo imparato a lavorare insieme anche tra veterinari e umani con un approccio trasversale che è sempre più importante. Bisogna monitorare anche i contagi tra gli animali selvatici visto che abbiamo abbiamo appurato che ci sono sciami legati alle direzioni delle migrazioni, che rappresentano delle vere autostrade per arrivare nei posti giusti”.
E se dovesse arrivare il Italia? I nostri allevamenti e in generale il nostro Paese è pronto ad affrontare una nuova pandemia?
“Negli allevamenti italiani ci sono disposizioni rigide e una buona responsabilità da parte degli allevatori che hanno tutto l’interesse a gestire eventuali focolai. Il rischio del contatto con gli animali è relativo e bisogna ricordare, ad esempio, che mangiare uova o carne non comporta nessun pericolo. Il problema è se il virus si dovesse sganciare dagli animali, creando la famosa catena di contagio umana, come è successo nell’influenza del 2009. Se i contagi restano relegati negli allevamenti questo rischio è molto basso anche perché il virus è pigro e non si è ancora adattato all’uomo, non andando oltre il contagio padre-figlio. Dobbiamo evitare di facilitare quella mutazione che farebbe prendere l’abbrivio in un attimo. Un rischio in Italia non lo vedo ma tutto può succedere se pensiamo che a Tokyo, per non parlare della Cina, su balconcini minuscoli ci sono spesso diversi volatili”.
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Che effetti avrebbe sull’uomo? Non siamo in qualche modo “immunizzati” considerando che il virus è in giro da così tanti anni?
“Di solito l’ospite non è permissivo quindi si infetta con manifestazioni non pesanti ma se dovesse debordare potrebbe provocare quelle modifiche di cui abbiamo parlato e potenzialmente potrebbe essere una patologia pesante negli effetti clinici. Anche se fosse una malattia banale sarebbe un problema perché il Covid è iniziato proprio così”.
C’è qualcosa che dovremmo aver imparato dal Covid e che non stiamo mettendo in atto?
“Prima del Covid ci aspettavamo proprio una pandemia di origine aviaria. Oggi per fortuna abbiamo a disposizione un vaccino a base mRNA che possiamo usare per sviluppare in modo rapido un vaccino per questo virus. Inoltre abbiamo un sistema di sorveglianza molto forte che ci permette di segnalare e individuare i singoli casi. A livello istituzionale bisogna sicuramente pianificare un approccio ragionevole per contenere questa allerta senza sottovalutarla. Eviterei di gridare al lupo al lupo per non suscitare una reazione di repulsione da parte della gente che ha ancora troppo fresco il ricordo del periodo del Covid”.