L’agricoltore pugliese che sfida i brevetti: “Vado in tribunale per il diritto di coltivare l’uva senza semi”

uva

Lorenzo Colucci, agricoltore alla soglia dei 70 anni, racconta la sua sfida alle aziende di breeding, che brevettano l’uva senza semi che produce e decidono chi può e chi non può piantarla

 

“Ho chiesto la licenza per coltivare l’uva a tutti e quattro i concessionari sul territorio, nessuno escluso, hanno rifiutato perché la mia azienda era troppo piccola. Ma senza le varietà che vogliono i consumatori sei tagliato fuori dal mercato”. Con queste parole, Lorenzo Colucci, agricoltore alla soglia dei 70 anni, racconta la sua sfida alle aziende di breeding, fatta di gesti di disobbedienza e cause in tribunale. Colucci, titolare insieme ai figli dell’azienda agricola La Fitta, che da generazioni coltiva uva da tavola a Casamassima, provincia di Bari, e la vende in Italia e in diversi paesi europei. La sua storia è raccontata da Fabio Ciconte nel libro “Chi possiede i frutti della terra” (ed. Laterza), affronta il tema della brevettazione dell’ortofrutta. L’innovazione costa ed è giusto che chi introduce nuove varianti vegetali le possa brevettare. Ma cosa succede quando le società hanno anche il diritto di scegliere a chi vendere? Che molti piccoli agricoltori rischiano il fallimento. Ne parliamo in un ampio servizio nel numero di giugno del Salvagente. Ma intanto ascoltiamo dalle parole dello stesso Colucci la sua storia a tratti paradossale.

Lorenzo Colucci, tutto è cominciato quando ha deciso di coltivare uva senza semi.
Sono un pioniere delle uve senza semi, da quando nel lontano 1986 abbiamo iniziato con l’uva della Sun Word, nella variante superior. Allora, avendo avuto la fortuna di girare il mondo avevo già capito che le uve senza semi sarebbero state il futuro, e infatti è stato così.

Già allora valevano le regole imposte dal marchio?
No, con la Sun Word si pagava solo la pianta. Poi negli anni 90 sono passato ad alcune varietà libere. Ma nel 2012 sono uscite le varietà brevettate più innovative, che hanno delle caratteristiche organolettiche migliori, producono di più, hanno una bacca più grande di quelle tradizionali.

E lì è iniziata la prima grana legale?
Sì, in Spagna un amico aveva un campo sperimentale con una varietà della società di breeding Snfl che mi piaceva. Sono andato dal genetista e gli ho detto che mi sarebbe piaciuto avere la licenza di quella pianta. Mi ha risposto che non potevano perché l’avevano data solo ai grossi esportatori. Gli ho risposto ‘mi piace, o me la dai o me la prendo e ci vediamo in tribunale’.

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Non pensa di avere sbagliato? Ha commesso un atto illegale…
Non ho sbagliato perché se tu la pianta ce l’hai su un territorio e la dai a Tizio, Caio e Sempronio, e a me no, è una pura discriminazione. Senza l’innovazione la mia azienda fallisce.

Cosa successe?
Mandarono l’ufficiale giudiziario, presero il Dna. Era il 2016. Il Dna non corrispondeva a quello loro, per cui poteva essere anche un’altra varietà. E quindi dopo la rilevazione del Dna, Snfl ha rinunciato al giudizio.

Com’è possibile?
Nel caso specifico, le motivazioni possono essere varie. In generale, il problema di queste richieste di privativa è che loro fanno una domanda di riconoscimento depositando una scheda amperografica.

Di che si tratta?
È una scheda meramente descrittiva della forma della foglia, dell’acino… una descrizione talmente ampia che nella scheda possono rientrare numerose varietà. Per di più la medesima varietà acquista morfologie diverse se la coltivi in Puglia o in Trentino. Nonostante la scheda preveda la possibilità di indicare il Dna all’atto della domanda, per gran parte di queste varietà non viene depositato presso l’Ufficio comunitario per le varietà vegetali (Cpvo).

Dunque?
Dopo anni, quando ricevono la privativa, indicano questo Dna. Chi me lo dice che il Dna che hai dichiarato dopo il riconoscimento della privativa è esattamente quello corrispondente della pianta madre?

Quella non fu l’unica grana in tribunale per lei.
In seguito ho scoperto una varietà di Ifg che mi piaceva. Sono andato dal responsabile del marchio per l’Italia e gli ho chiesto la licenza. Ma anche in questo caso ottenni un rifiuto, perché la mia azienda era troppo piccola. Eppure io avevo garantito che avrei potuto coinvolgere anche altri produttori amici per ampliare l’area coltivata. Così anche a lui dissi che l’avrei piantata lo stesso. Nel 2019 venne l’ufficiale giudiziario in campagna e prese i campioni.

Sulla questione si è espressa anche la Corte di giustizia europea.
Sì, seguendo tutta la prassi della deposizione di Ifg presso il Cpvo, per quanto riguarda il brevetto, abbiamo scoperto che loro avevano presentato la domanda ma non avevano ancora ottenuto la privativa vegetale. Io l’avevo piantata in questo intervallo per cui la Corte nel dicembre 2019 concluse che le vigne erano regolarmente piantate, e bisognava solo riconoscere un equo indennizzo per le royalties.

La società di breeding a quel punto si rivolge anche al Tribunale di Bari. Cosa succede?
Il Tribunale di Bari nel procedimento di descrizione avviato da Ifg contro di me ha applicato la sentenza della Corte di giustizia europea e ha rigettato con un’ordinanza la richiesta di estirpazione delle piante. Hanno fatto reclamo e adesso ci sarà il giudizio di merito, in cui loro chiedono di nuovo l’estirpazione e il giudice dovrà stabilire comunque l’indennizzo.

Di fronte a tutti questi problemi non poteva cercarsi una varietà di uva senza privativa?
I consumatori non le vogliono. Tutte le varietà obsolete vengono estirpate perché non hanno più mercato.

Lei ha trasformato la sua battaglia in una battaglia collettiva.
Come l’ho avuto io questo problema, l’hanno avuto centinaia di aziende nel Sud Italia. Ho costituito prima il Comitato liberi agricoltori e commercianti di Puglia e Basilicata, e poi a marzo ne ho costituito un altro analogo in Sicilia.

Perché?
Per iniziare una guerra presso l’Antitrust. Secondo me, le società di breeding hanno creato un monopolio. E il consumatore non viene tutelato per quanto riguarda i prezzi.

Vi siete già rivolti all’Antitrust?
Abbiamo fatto la segnalazione il 10 giugno 2019, l’Antitrust si è espressa l’anno scorso. Le 4 società titolari del brevetto si sono difese sostenendo che arrivano a una quota di mercato del 32%, come da statistica Istat. Per essere condannate dovrebbero avere il 10% l’una. Ora stiamo facendo fare una nuova stima aggiornata ufficiale all’Università agraria di Foggia, che pensiamo darà numeri ben maggiori. Quando sarà conclusa torneremo dall’Antitrust.