C’è già chi lo chiama il Grande Fratello nel piatto. Fa discutere la decisione di iniziare a testare Presto Vision, un software di visione artificiale applicato ai ristoranti di Outback Steakhouse, la catena a tema australiano nata in Florida e oggi con oltre 1.000 franchisor in 23 nazioni tra il Nord America, il Sud America, l’Asia e l’Australia.
Il programma sfrutta le telecamere di sorveglianza che molti ristoranti hanno già installato e le utilizza per capire quanta fila fanno i clienti prima di sedersi, quanti abbandonano prima, i tempi di attesa dall’ordine alle portate. E a fine serata (ma anche in tempo reale) manda statistiche e messaggi al manager per identificare eventuali problemi e per valutare i lavoratori. Con il rischio, paventano in molti, di creare un occhio elettronico (gestito da un algoritmo) che determini “disumanamente” chi resta al lavoro e chi deve andare via, chi ha diritto ai bonus e chi invece è bene (per il datore di lavoro) che faccia meno turni di lavoro.
Un meccanismo del genere, d’altronde, è stato già impiegato da fast food come Dominos nei negozi in Australia e Nuova Zelanda, dove una telecamera e un software di intelligenza artificiale seguono i lavoratori in cucina e avvertono di eventuali pizze sfornate sotto gli standard della casa. Un programma, hanno ammesso gli stessi dirigenti di Domino, che può servire per quantificare i bonus, o i negozi che “scendono al di sotto” dei loro colleghi.
Se l’aria di chi lavora in ristorante peggiora (e di molto) non è che i consumatori abbiano preso questo meccanismo di controllo continuo con molto piacere e nonostante Presto Vision assicuri che non li identifica e non utilizzi alcun riconoscimento facciale, i timori crescono. Anche perché non sono poche, invece, le catene che sfruttano la vigilanza continua e l’intelligenza artificiale per “spiare” clienti o potenziali clienti.
È quello che stanno facendo i grandi magazzini come Zara. Qualche tempo fa, il colosso dell’abbigliamento low cost ha aperto le porte dei suoi “negozi segreti” in Spagna a un gruppo di giornalisti: un vero e proprio laboratorio dove l’azienda di Amancio Ortega studia i comportamenti dei clienti e li ripropone nello stesso modo nei suoi negozi sparsi per il mondo. Il team di architetti e di esperti di visual merchandising riceve nuovi articoli due volte a settimana e poi decide esattamente come devono essere messi in esposizione pantaloni, vestiti e blazer: usa i manichini per mostrare quale abbigliamento funziona bene, per ispirare i clienti e, si spera, per incoraggiarli a comprare gli outfit (ossia i capi e gli accessori completi).
Non conosci il Salvagente? Scarica GRATIS il numero con l'inchiesta sull'olio extravergine cliccando sul pulsante qui in basso e scopri cosa significa avere accesso a un’informazione davvero libera e indipendente
Per capire in quale direzione possono andare questi esperimenti basta tornare a guardare al di là dell’oceano, a Wallamart, il big dei discount degli Stati Uniti. Già nel 2016 la catena ha brevettato il carrello della spesa che si muove da solo ed è in grado di posizionarsi esattamente nel luogo giusto, grazie a una lista della spesa che il cliente ha compilato sul proprio telefonino. Ed è sempre Wallmart ad aver stretto una partnership con Google perché sia lo stesso algoritmo a suggerire la lista della spesa al cliente in base alle sue preferenze passate e agli acquisti registrati.
Peccato che alla fine, al momento di pagare, non ci sia software che sostituisca il nostro portafogli.