Un indice per stabilire quando un cibo è “naturale”. Lo studio

Le aziende ne abusano sulle confezioni e sul marketing ma “naturale” è un claim mai definito per legge. Nè dalla legge nazionale nè da quella comunitaria. E così molto spesso finisce per essere definito “naturale” un alimento trasformato, pieno di additivi, ottenuto da pratiche agricole che impongono i trattamenti fitosanitari e che magari è pieno zeppo di ingredienti di cui si poteva farne a meno. E magari contaminato da pesticidi.

Ma quale tipo di alimento può essere definito naturale? Quali sono le caratteristiche nutrizonali, agricole e produttive che possono legittimare una qualità del genere?

L’Università di Murcia, il Politecnico di Zurigo in collaborazione con il gruppo Hero hanno definito un Indice di naturalità alimentare (FNI, Food Naturalness Index) sulla base di uno studio che sarà pubblicato nei prossimi giorni sulla rivista scientifica Trends in Science Science and Technology di ScienceDirect (qui si può leggere l’abstract).

In buona sintesi l‘Indice considera quattro criteri principali per misurare la naturalezza di un cibo:
1)
Il tipo di pratica agricola in base alla quale sono stati ottenuti gli ingredienti, discriminando tra convenzionale e biologica (ad esempio un prodotto biologico per l’infanzia è considerato più naturale del prodotto convenzionale destinato agli adulti);

2) Il numero di additivi dichiarati nel prodotto;

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3) Il numero di ingredienti non necessari o inaspettati ovvero che non ci si potrebbe aspettare per quel tipo di cibo che sono stati comunque impiegati;

4) Il numero di ingredienti trasformati, l’uso di tecnologie di elaborazione minime e il tipo di conservazione utilizzata (conservazione congelata, fredda o ambientale).

Lo studio è interessante anche perché ha il merito quanto meno di lanciare un sasso nello stagno ma a nostro giudizio è carente sotto almeno due aspetti: dovrebbe prendere in considerazione anche il livello di pesticidi (specialmente la presenza di più molecole seppur al di sotto del limite di legge, il cosiddetto effetto cocktail) e di contaminanti di processo (come l’acrilammide).