Il cotone è davvero bio? Te lo dice il Dna “spia”

Il cotone biologico piace alla gente, che lo cerca quando fa acquisti ed è disposta a pagare anche un po’ di più un prodotto realizzato in un materiale naturale e bio. Si tratta di una nicchia ancora ristretta, “pari all’1% del mercato globale del cotone”, ma che vale circa 15 miliardi di dollari. Accade però che una buona parte sia “finto”, fanno sapere da Haelixa, spin-off svizzero nato in seno alla Eth, che promuove lo sviluppo di strumenti di nuova generazione finalizzati alla tracciabilità della catena di approvvigionamento.

Ed è proprio con l’obiettivo di garantire sicurezza sulla provenienza di una serie di prodotti, che Haelixa ha lanciato “Organic cotton traceability pilot”, un progetto pilota nato per identificare l’origine del cotone biologico, costruito grazie alla collaborazione con Fashion for good, C&A Foundation, The organic cotton accelerator (OCA) e Bext360, con il supporto di soggetti tecnici e non solo come Pratibha Syntex, Kering, Zalando, PVH Corp., C&A and other technical partners (Tailorlux, IN-Code Technologies).

Il tracciante in questione è composto di sequenze di DNA, creato artificialmente, incapsulate all’interno di particelle di ossidi inorganici che proteggono il DNA da alterazioni e rendono l’”etichetta” duratura. Ciascun tracciante al DNA riporta un codice univoco e facile da identificare. Le particelle invisibili all’interno delle quali viene incapsulato il DNA possono essere miscelate con qualsiasi fluido e oggetto, fornendo un’impronta digitale unica. “È una modalità già utilizzata in altri ambiti, come quello delle analisi cliniche o il settore forense”, spiega Michela Puddu, co-fondatore e ceo di Haelixa.

Questo tracciante, nella pratica, viene spruzzato sul cotone appena raccolto, dando una specie di “carta d’identità” che lo accompagnerà lungo tutto il percorso . Così, “se nei diversi passaggi, qualcuno dovesse cercare di manomettere il prodotto finale mescolando il cotone biologico con cotone di scarsa qualità, si potrà facilmente scoprirlo”, spiega Puddu.

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Un passo in avanti, dunque, rispetto ad oggi: fino ad ora, infatti, solo le certificazioni cartacee garantiscono per il prodotto. “Ma i certificati scritti non danno la sicurezza di un codice identificativo univoco”, aggiunge la Ceo di Haelixa.

Solitamente la richiesta di certificare il cotone parte dall’azienda che lo utilizza come produttore finale: “A quel punto tutti gli anelli della catena partecipano e autorizzano l’identificazione”, chiarisce Puddu, anche perché se non lo fanno, facilmente celano un comportamento sospetto, su cui diventa necessario intervenire. “Noi, come Haelixa, possiamo andare direttamente in loco o farci spedire dei campioni su cui fare la verifica; oppure possiamo formare il personale perché poi l’azienda che richiede questa certificazione possa agire in modo autonomo”, fa sapere ancora la co-fondatrice dello spin-off svizzero.

Il progetto pilota legato all’identificazione del cotone biologico, ad oggi, ha compiuto la sua prima fase, quella che va dal campo di cotone all’azienda che lo lavora, e l’obiettivo della seconda fase è quello di arrivare direttamente al consumatore.

“L’interesse da parte delle aziende è elevato perché garantisce un’indiscutibile trasparenza e, inoltre, questo lavoro che parte dal campo di cotone permette di andare a verificare, prima di fare le analisi sul materiale stesso, anche le condizioni di lavoro e gli standard dei soggetti coinvolti nel settore”, aggiunge Puddu.

Haelixa, insieme al cotone, sta lavorando anche per la certificazione della qualità di vari materiali, tra cui le pietre preziose: altro settore “a rischio”. Ma sta lavorando anche sulla plastica e sulla lana, in campo tessile: proprio l’11 aprile l’azienda sarà presente a Venezia nell’ambito dell’International wool textile organization per presentare i traccianti.

Ma, potenzialmente, la tecnologia potrebbe essere applicata anche agli alimenti: “Abbiamo fatto già delle prove e funziona; trattandosi però di cibo sono più rigidi gli step da percorrere, dal punto di vista legislativo e burocratico, perché, benché noi sappiamo che i prodotti non vengono alterati in alcun modo da questo tracciante, è evidente che sia necessario avere tutte le approvazioni del caso per poter davvero intervenire”, spiega ancora la ceo di Haelixa.