Fino a qualche anno fa lo spazio sugli scaffali dedicato a questo prodotto era molto ristretto, ora è tutto un fiorire di prodotti diversi, adatti – assicurano i produttori – a preparazioni specifiche. Ma sappiamo come valutarli? Il nostro approfondimento nel numero in edicola
I sempre più diffusi programmi televisivi di cucina, le clip sui social network e il recente periodo di lockdown hanno stimolato i consumatori a prodigarsi nella preparazione di pietanze domestiche che forse qualche anno fa non pensavano minimamente di poter fare in casa. E così non sono pochi quanti – pur non essendosi mai messi ai fornelli fino a qualche anno fa – ora si impegnano in complicate e delicate lievitazioni domestiche.
Pane, pizza, dolci, biscotti, panettoni, colombe… chi non si è cimentato in questi ultimi anni a provare a farli in casa e quanti sono diventati pizzaioli esperti tanto da avere una moltitudine di ospiti a cena ogni sabato sera?
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Il comune denominatore di tutte queste pietanze è la farina, ed è proprio questo l’ingrediente le cui vendite sono decollate negli ultimi anni. Lo spazio destinato sugli scaffali dei supermercati che prima era più o meno grande quanto quello dello zucchero o del sale, ora è diventato almeno cinque volte più esteso.
La farina per antonomasia è quella che si ottiene dalla macinazione del grano; quando si parla di semola di grano duro e di farina di grano tenero, si identifica il prodotto della molitura di due diverse specie botaniche, il Triticum durum e il Triticum aestivum, che presentano caratteristiche tecnologiche e nutrizionali molto diverse.
A livello tecnologico i parametri che si utilizzano per differenziare le farine, derivanti dalle due specie, sono l’estendibilità (L) e la tenacità (P).
La prima rispecchia l’attitudine della farina ad ampliare la superficie della cosiddetta “maglia glutinica” e quindi indirettamente la capacità di trattenere acqua e gas di lievitazione. L’estendibilità è alta nelle farine di grano di tenero e bassa in quelle di grano duro. Ciò giustifica la predisposizione delle prime alla produzione di pane e lievitati che devono gonfiarsi e crescere in volume.
La tenacità invece è la proprietà, tipica degli impasti di semola di grano duro di resistere alle sollecitazioni meccaniche senza rompersi; una caratteristica peculiare che le rende idonee alla formatura e alla trafilatura. Per questo motivo le semole di grano duro sono usate per la produzione di pasta secca.
Sulle confezioni di farina a volte troviamo il rapporto tra questi due parametri (P/L) che ci aiuta a scegliere in base all’utilizzo richiesto. Più spesso invece è probabile leggere sulle confezioni il parametro W, ossia la forza della farina, che va da 90 a 400 e tecnicamente rappresenta il punto massimo oltre il quale avviene la rottura dell’impasto. Il numero indica l’energia necessaria per far scoppiare l’impasto nell’alveografo; più è alto e più forza ci vuole per raggiungere il punto di rottura e quindi maggiore è l’idoneità della farina per la panificazione.
Giusto per rendere l’idea, il valore 400 lo troviamo sulle farine speciali Manitoba, molto usate nelle pizzerie, che permettono al pizzaiolo di compiere le stravaganti evoluzioni in aria con l’impasto, senza romperlo.
Le altre differenze sono determinate dal quantitativo di crusca che viene separata in molitura; il cosiddetto livello di “abburattamento”. Più crusca rimane nell’impasto più si parla di farina integrale. Più se ne rimuove, più si parla di farina raffinata. Tra i due estremi esistono abburattamenti intermedi. La scala è la seguente: Integrale, 2, 1, 0 e 00.
Matematicamente, maggiore è la crusca, minore è il glutine e di conseguenza minore e l’idoneità a panificare. Tagliare con farine raffinate risulta inevitabile e questo giustifica il dilagare del “falso integrale” di cui abbiamo parlato in tanti articoli.
Da questa differenziazione generale scaturiscono tutta una serie di varianti di prodotti che prevedono l’utilizzo dei famosi grani antichi come il Senatore Cappelli o Verna o Gentil Rosso. Cosa sono questi grani antichi? Negli ultimi decenni il grano è stato selezionato, incrociato e talvolta geneticamente modificato per ottenere una materia prima idonea alle necessità dell’industria. Esistono poi delle varietà che nell’ultimo secolo, non sono stati coinvolte in questa cosiddetta “rivoluzione verde”. Grani caratterizzati da un maggiore equilibrio tra amido e glutine, da una migliore digeribilità e anche da un indice glicemico leggermente più basso.
La forza delle farine ottenute dai grani antichi è più bassa e questo rende più difficile la loro lavorazione per gli amatori, ma il prodotto è più salutare.
Un’altra variante è determinata dalla tipologia di macinazione. Di fianco alle farine molite con i cilindri, troviamo prodotti ottenuti con la macinazione a pietra.
Questo secondo tipo porta ad avere una farina più ricca di micronutrienti, che si preservano per le minori temperature di processo a cui è sottoposta la materia prima, e di fibra dovuto al fatto che vengono macinati i chicchi interi compresi di crusca e germe di grano. La presenza del germe e quindi dei grassi accorcia la conservabilità della farina a causa dell’irrancidimento, per cui sulle confezioni al supermercato troveremo date di scadenza più vicine.
Le “farine” senza glutine e le low carb
Non solo grano. Gran parte della varietà di farine sugli scaffali del supermercato riguarda prodotti destinati ad alimentazioni speciali, per fini dietetici o sportivi e per specifiche ricette.
Per i celiaci o gli intolleranti al glutine, il grano è il nemico supremo e per realizzare in casa prodotti da forno o dolci idonei alla propria condizione vengono in aiuto farine speciali.
I precursori del glutine sono le molecole principali in una farina per ottenere il fenomeno della lievitazione e della tenuta dei gas di fermentazione; una farina senza glutine pertanto ha un pesante limite tecnologico.
Per ottenere un risultato decente bisogna ricorrere a composizioni specifiche e additivi alimentari. Prendiamo ad esempio la Fioreglut del rinomato marchio Caputo; nella lista degli ingredienti oltre all’amido di frumento deglutinato e alle farine naturalmente senza glutine come quella di grano saraceno, troviamo il destrosio, l’amido di mais e di riso, la fibra di semi di psyllium, la gomma di guar e gli aromi.
Additivi con funzione addensante che servono per dare all’impasto la consistenza che si ottiene dalla lievitazione in presenza di glutine; il destrosio invece, in quanto glucosio semplice, serve per dare nutrimento rapido ai lieviti responsabili della fermentazione.
Nel mix Universale della Schär, le farine senza glutine usate sono quelli di riso e sorgo, il destrosio è presente e come addensante troviamo l’idrossipropilmetilcellulosa.
Una serie di molecole sono concesse anche nelle farine convenzioniali di grano, ma anziché additivi vanno sotto il nome di “coadiuvanti tecnologici”; per questo motivo non è obbligatorio indicarle in etichetta. Tra queste: acido fosforico, acido ascorbico, biossido di silicio, L-cisteina e diversi enzimi che migliorano le capacità tecnologiche (i miglioratori appunto).
Naturalmente senza glutine è la farina di mais, utilizzabile per la preparazione della polenta. Normalmente in commercio questa farina pur presentandosi sotto forma di polvere apparentemente appena molita, è in realtà precotta. Precisamente il mais è cotto e poi macinato.
Una versione famosa di farina di mais precotta diffusa in Italia, oltre a quella per la polenta, è la P.A.N. usata per le arepas, tipica pietanza dell’America Latina.
Non mancano le farine per gli sportivi o per chi vuole stare attento alla linea. Le farine proteiche e quindi “low carb” (con meno carboidrati) si ottengono semplicemente usando il glutine come ingrediente che chimicamente non è altro che una proteina. In questo modo la quota carboidrati scende matematicamente, la capacità tecnologica della farina aumenta, ma il tenore proteico non è di qualità, poiché il glutine è una proteina a basso valore biologico.
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