È il nuovo lavoro di Francesco De Augustinis, regista e giornalista, che in tre anni di lavoro in tre continenti ha filmato e documentato il pesante impatto degli allevamenti intensivi di pesce (il trailer)
Un viaggio “fino alla fine del mondo” per indagare l’impatto della produzione di spigole, orate e salmoni di allevamento. Oltre agli allevamenti intensivi di maiali, polli e vitelli, anche l’industria del pesce incide in maniera significativa sulla sostenibilità ambientale, sulla sicurezza alimentare e sullo sfruttamento delle risorse, inquinando paradisi naturali e distruggendo piccole economie locali in varie parti del mondo. Ed è questo ciò che racconta “Until the End of the World” (Italia, 2024, 58’), il nuovo documentario del regista e giornalista Francesco De Augustinis, presentato oggi, 15 febbraio, al MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma.
L’insostenibilità dell’intensivo
Dopo “Deforestazione Made in Italy” (un lavoro raccontato dal giornalista e regista anche in un lungo servizio per il Salvagente) e “One Earth – Tutto è connesso”, De Augustinis torna a parlare del legame tra sostenibilità ambientale e allevamenti intensivi, indagando questa volta ciò che succede nell’industria dell’acquacoltura – cioè l’allevamento degli animali d’acqua – forse meno famosa di quella della carne ma non meno importante in termini di impatto ambientale e di profitto. “Il documentario racconta la crescita rapidissima degli allevamenti di pesce, per produrre salmoni, spigole, orate, o anche gamberi, trote e tonni, in diverse regioni del mondo,” afferma l’autore. “In questo viaggio attraverso tre continenti abbiamo incontrato realtà molto diverse e tantissime comunità locali, che stanno combattendo ognuna la sua battaglia contro la crescita inarrestabile di questa industria, che spesso minaccia la loro stessa esistenza.”
Un lavoro durato tre anni
Il documentario, frutto di un lavoro di ricerca giornalistica durato tre anni, realizzato grazie al sostegno di Journalismfund.eu e dell’Internews’ Earth Journalism Network, racconta le varie tappe di un viaggio sulle orme dell’industria dell’acquacoltura, per indagare se davvero questo modello produttivo contribuisca a rendere più sostenibile il sistema alimentare, come promette, a fronte di una popolazione mondiale che potrebbe raggiungere 9,7 miliardi di persone nel 2050.
I numeri dell’acquacoltura
Oggi l’acquacoltura è nota per essere l’industria alimentare che cresce più rapidamente al mondo, tanto che già nel 2021 a livello globale la quantità di pesce prodotto in allevamento ha superato la pesca. Numeri esatti, quando si parla di pesci, sono praticamente impossibili, ma secondo alcune stime (Compassion in World Farming; FishCount) nel mondo sono allevati tra i 40 e i 120 miliardi di pesci, per una produzione annuale di circa 122,6 milioni di tonnellate (UN Food and Agriculture Organisation, 2022). “Se torniamo indietro di 30 anni, l’acquacoltura non aveva un livello di produzione così elevato,” racconta nel film Alessandro Lovatelli, esperto della divisione Acquacoltura della FAO. “Negli ultimi tre decenni, però, l’industria ha continuato a crescere senza sosta,” afferma Lovatelli.
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Blue Transformation o eterno ritorno?
Il documentario rivela come l’ascesa esponenziale dell’acquacoltura non sia casuale, ma il risultato di una precisa volontà politica: secondo la FAO la crescita degli allevamenti di pesce deve essere un ingrediente base della cosiddetta “Blue Transformation“, la strategia delle Nazioni Unite per aumentare la produzione globale di cibo con un maggiore ricorso alle risorse marine. Nei fatti, spiega il documentario, questo sostegno incondizionato all’allevamento di salmoni, spigole, orate e altri pesci, oggi sta attirando enormi investimenti su questa industria relativamente nuova, che di conseguenza sta crescendo a dismisura in diverse regioni del mondo. Il film mostra però anche gli effetti collaterali di questa crescita esponenziale, che ricorda molto quanto successo pochi decenni fa con la nascita e il diffondersi ovunque degli allevamenti intensivi di terra.
Colonialismo
Partendo dagli allevamenti di spigole e orate nel Mediterraneo, in Italia, Grecia e Spagna, il documentario mostra l’inquinamento di paradisi naturali, la distruzione di piccole economie locali e la paradossale concorrenza di questa industria con i mezzi di sostentamento di intere comunità, anche in aree vulnerabili del Pianeta. “L’idea del documentario è di raccontare e mettere in collegamento le vicende di diverse comunità che in diverse parti del mondo stanno combattendo contro l’espandersi degli allevamenti di pesce,” racconta De Augustinis. “Dall’Italia, alla Grecia, dalla Spagna al Senegal, fino alle acque un tempo incontaminate della Patagonia cilena, il film racconta un perenne conflitto per le risorse legato al crescere smisurato di questa industria.” Il quadro che viene fuori ricorda molto una certa forma di “colonialismo”, una parola che ricorre per motivi diversi in tante parti del film. Il documentario mostra infatti come questa industria dipenda dalla cattura di risorse naturali, che siano porzioni di mare da trasformare in aree produttive o enormi quantità di pesci da trasformare in mangimi.
Fino alla fine del mondo
L’eccessiva dipendenza dalla pesca, in uno scenario dove oltre la metà delle specie marine sono già pescate sopra i livelli di sicurezza, sta spingendo l’industria a cercare “nuove soluzioni” per produrre mangimi e nutrire un numero sempre maggiore di pesci negli allevamenti. Proprio la storia di una di queste soluzioni alternative conduce lo spettatore, nell’ultima parte del documentario, “fino alla fine del mondo”, tra le acque gelide che circondano l’Antartide. Questo è uno dei luoghi più simbolici del Pianeta, la cui sopravvivenza oggi è messa in seria discussione dai cambiamenti climatici. Ma anche l’Antartide, scopriremo, deve fare i conti con la ricerca incessante di materie prime per nutrire la crescita senza sosta dell’industria degli allevamenti di pesce.