
Un monitoraggio su 80 confezioni di patatine trova valori molto variabili di acrilammide e, nel 51% dei casi, sopra i livelli consigliati in Ue. Dopo anni di calo, la curva si impenna, segno che non funzionano i “consigli” europei all’industria
Acrilammide: la parola è nota da tempo a chi si occupa di sicurezza alimentare. E anche ai lettori del Salvagente. È un contaminante che si forma soprattutto quando alimenti ricchi di amido vengono cotti ad alte temperature – frittura e forno – attraverso reazioni di Maillard. Da anni è considerato un tema rilevante per la salute pubblica, perché l’esposizione alimentare è diffusa e riguarda più gruppi di alimenti, in particolare i prodotti a base di patate fritte.
Ora una nuova ricerca dell’Institute of Food Science, Technology and Nutrition (ICTAN-CSIC) di Madrid, appena pubblicata su ScienceDirect, riporta l’attenzione proprio sulle patatine “crisps” (le classiche chips in busta): 80 campioni commerciali acquistati in Spagna nel maggio 2025, analizzati con tecniche di laboratorio ad alta sensibilità e confrontati con i dati storici raccolti dallo stesso gruppo dal 2004 al 2019.
Metà oltre il livello di riferimento Ue
Il dato che colpisce di più è la quota di superamenti: il 51% dei campioni risulta sopra il livello di riferimento europeo (benchmark) di 750 μg/kg per le patatine.
Le concentrazioni misurate vanno da 160 a 2871 μg/kg, con media 890 μg/kg e mediana 785 μg/kg. Un’oscillazione enorme, che segnala come le misure di riduzione dell’acrilammide non siano applicate in modo uniforme dall’industria.
Fino a pochi anni fa, i dati mostravano una traiettoria incoraggiante: tra il 2004 e il 2019 i livelli medi di acrilammide nelle patatine in Spagna si erano ridotti in modo consistente. Il monitoraggio 2025 cambia però il quadro: la mediana sale a 785 μg/kg, contro i 569 μg/kg del 2019. In altre parole, la discesa si ferma e la curva torna a salire.
Secondo i ricercatori, le possibili cause sono diverse:
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stagionalità delle patate e tempi di stoccaggio, che possono favorire l’accumulo di zuccheri;
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parametri di frittura non adeguatamente controllati, come temperature e durata del processo;
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l’uscita di scena del clorprofam (CIPC), un antigermogliante vietato nell’Unione europea, che potrebbe aver influito indirettamente sulla composizione delle patate destinate alla trasformazione.
Consigli ignorati
Da anni l’Unione europea ha messo nero su bianco un pacchetto di misure per ridurre l’acrilammide negli alimenti: scelta delle varietà di patate, controllo dei precursori chimici, gestione dello stoccaggio, attenzione al colore finale delle chips e ottimizzazione della frittura. Non si tratta però di limiti di legge, ma di livelli di riferimento, una sorta di consiglio, che le aziende dovrebbero usare per verificare se stanno davvero riducendo il contaminante. Come i nostri lettori (e le industrie) sanno bene, anche grazie ai test di questo giornale, però, non essendo limiti di legge non è prevista alcuna sanzione per chi li supera.
Lo studio spagnolo mostra anche che sul mercato convivono prodotti molto diversi, alcuni con livelli relativamente bassi e altri decisamente elevati. Segno che c’è chi ha messo in atto una strategia produttiva in grado di contenere il contaminante di processo e chi non ci ha neppure provato.
L’esposizione e il nodo del rischio a lungo termine
Gli autori stimano che, con i consumi medi, l’assunzione di acrilammide dalle patatine sia intorno ai 2 microgrammi al giorno per adulto. Nella valutazione del rischio, i margini di sicurezza risultano adeguati per gli effetti neurologici, ma più critici per quelli cancerogeni, con valori che restano sotto la soglia considerata rassicurante nel lungo periodo.
Osservano gli autori spagnoli della ricerca:
“Sebbene le strategie di mitigazione siano state parzialmente implementate, la loro applicazione non uniforme continua a determinare livelli elevati di acrilammide in una quota significativa delle patatine sul mercato”









