Dal gamberetto rosa all’aringa: i pesci più consumati sono pieni di microplastiche

Un nuovo studio evidenzia la presenza di microplastiche in 5 specie di pesci catturati nelle acque dell’Oregon: rockfish nero, lingcod, salmone Chinook, aringa del Pacifico, lampreda del Pacifico e gamberetto rosa. Sono state rilevate oltre 1.800 particelle nei tessuti muscolari di 180 dei 182 campioni di frutti di mare analizzati

Le microplastiche che si staccano dai tessuti, durante il lavaggio, dagli imballaggi alimentari, dagli pneumatici, dai prodotti per la cura personale e da altri oggetti finiscono in mare (lo sappiamo) e li ritroviamo nei pesci più consumati, in primis nei frutti di mare. È quanto evidenzia un nuovo studio, pubblicato a fine dicembre su Frontiers in Toxicology, condotto dai ricercatori del laboratorio di ecologia costiera applicata della Portland State University che hanno rilevato la diffusa presenza di particelle antropogeniche nei tessuti commestibili di 5 specie di pesci ossei e di un mollusco catturati nelle acque dell’Oregon: rockfish nero, lingcod, salmone Chinook, aringa del Pacifico, lampreda del Pacifico e gamberetto rosa. Sono state rilevate oltre 1.800 particelle nei tessuti muscolari di 180 dei 182 campioni di frutti di mare analizzati.

Sono le fibre le sostanze più rilevate 

Tra le specie campionate, il gamberetto rosa, che si nutre filtrando l’acqua appena sotto la superficie, aveva il numero più alto di particelle nei suoi tessuti commestibili: ben 36 in un singolo gamberetto rosa del peso di 4,9 grammi. All’opposto, il salmone Chinook aveva la quantità e la concentrazione più basse, seguito dal rockfish nero e dal lingcod.
I ricercatori hanno anche confrontato i pesci provenienti da pescherecci con quelli acquistati nei supermercati e nei rivenditori di frutti di mare, concludendo che questi ultimi, compreso il gamberetto rosa, potrebbero essere esposti a particelle aggiuntive durante la lavorazione, ad esempio attraverso gli imballaggi in plastica utilizzati per la conservazione. “Indipendentemente dalla provenienza dei prodotti ittici, negli individui analizzati sono stati trovati almeno 0,3 particelle antropogeniche ogni 10 grammi di tessuto commestibile, segnalando la necessità di politiche e altri interventi per regolamentare le microplastiche”, affermano i ricercatori che consigliano ai produttori e rivenditori di prodotti itticidi passare a metodi di confezionamento alternativi, come materiali naturali a base di cera d’api, amidi o zuccheri, per limitare l’introduzione di particelle nei frutti di mare commercializzati,” suggeriscono i ricercatori. “Per i consumatori, consigliamo di acquistare pesce intero e locale quando possibile per ridurre l’introduzione di AP tramite l’imballaggio in plastica.”

Il tipo di particella più presente è rappresentato dalle fibre (1.466, ovvero l’82% del totale), seguite dai frammenti (332, il 17%) e dalle pellicole (8, meno dell’1%). I colori più comuni delle particelle sono blu, nero e trasparente o bianco. La particella più lunga misurava 0,142 pollici (quanto lo spessore di una moneta da un quarto di dollaro), mentre la più larga misurava 0,07 pollici (quanto la punta di una matita). La stragrande maggioranza delle particelle sospette (65%) erano materiali come cellulosa, fibre di cotone e acetato di cellulosa, mentre circa il 17% era costituito da materiali completamente sintetici, il 9% semi-sintetici e l’8% naturali. I materiali sintetici e semi-sintetici includevano polietilene tereftalato (Pet), polipropilene (Pp), polietilene a bassa e alta densità (Pe), polietilene vinil acetato (Peva), fibra di vetro e cartone semi-sintetico. Il team di ricerca ha anche trovato un caso di un materiale comunemente usato nelle corde marine, nei tessuti ignifughi e nelle applicazioni militari.

Crescenti preoccupazioni per la presenza di microplastiche nella catena alimentare

L’esposizione a queste sostanze chimiche aumenta il rischio di vari problemi di salute, dai disturbi ormonali al cancro. “È molto preoccupante che le microfibre si spostino dall’intestino ad altri tessuti come il muscolo”, afferma la coautrice dello studio Susanne Brander, professoressa associata di tossicologia ambientale e molecolare presso l’Oregon State University. “Ciò ha implicazioni significative per altri organismi, potenzialmente anche per gli esseri umani.”
Gli scienziati stanno documentando sempre più frequentemente la presenza di microplastiche nelle specie marine e d’acqua dolce destinate al commercio.
Precedenti ricerche condotte da Granek, ad esempio, si sono concentrate sulle concentrazioni di microplastiche nelle ostriche del Pacifico e nelle vongole lungo la costa dell’Oregon. In media, ogni ostrica conteneva circa 11 microplastiche, mentre ogni vongola ne conteneva circa 9. Quasi tutte erano microfibre, che possono provenire da indumenti in materiali sintetici o naturali e da attrezzature da pesca deteriorate.
Un altro studio condotto in Portogallo ha dimostrato che l’ingestione di microplastiche, tra cui polietilene e poliestere, può causare danni cerebrali e danni alle cellule, ai tessuti e al Dna nei pesci selvatici.
Secondo gli studiosi, saranno necessarie politiche internazionali, come i negoziati in corso sul trattato globale sulla plastica, per affrontare il problema su larga scala. “A meno che non cambiamo il nostro rapporto con la plastica e riduciamo significativamente la sua produzione, continueremo a subirne gli impatti negativi.”