“Il test sull’olio è giornalismo di inchiesta”. Coricelli perde: chiedeva 20 milioni e invece ci pagherà le spese legali

OLIO CINA

Il test sull’olio del 2015, che aveva declassato tra gli altri gli oli Cirio e Coricelli, è stato giudicato dal Tribunale di Spoleto corretto e non diffamatorio. L’azienda umbra dopo aver perso il procedimento penale aveva intentato quello civile con una richiesta di risarcimento danni di oltre 20 milioni di euro. Il giudice l’ha respinta completamente

 

Il nostro test del 2015 sull’olio, quello che fotografava lo “scivolone dell’extravergine”, con 9 bottiglie su 20 declassate come semplici vergini, era del tutto rispettoso dei limiti e dei principi deontologici e lungi dal trarre in inganno i lettori, ha fornito loro un dettagliato e veritiero resoconto delle verifiche, effettuate sugli olii esaminati, nell’inchiesta giornalistica nonché dei risultati ottenuti.

Si è chiusa così, con la pronuncia del giudice del Tribunale di Spoleto Federico Falfari, la causa civile di I grado promossa dall’azienda Coricelli nei confronti del Salvagente e di Enrico Cinotti, che aveva firmato l’inchiesta e di Repubblica e della giornalista Caterina Pasolini che ne avevano anticipato i risultati.

L’azienda olearia aveva chiesto un risarcimento di 20 milioni di euro per tutti i danni sofferti da quella che riteneva un’azione diffamatoria e lesiva della reputazione, dell’onore e della dignità e/o del decoro della Coricelli.

Una richiesta enorme, così l’avevamo commentata da subito, che il giudice ha rigettato in pieno, condannando anzi la Coricelli a pagare poco meno di 60mila euro di spese tanto al Salvagente che a Repubblica.

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Il test sull’olio extravergine

 

Facciamo un salto indietro di 8 anni e riavvolgiamo il nastro al giugno 2015, quando il nostro giornale (che all’epoca si chiamava il Test) pubblicò gli esiti del suo test sull’olio extravergine. Dopo una lunga serie di analisi chimiche e un panel di degustazione condotto dall’Agenzia delle dogane, scoprimmo che 9 bottiglie comunemente vendute sugli scaffali dei supermercati non erano classificabili come extravergini ma per i difetti organolettici che mostravano potevano solo essere vendute come vergini, dunque a un prezzo minore.

 

La copertina del Salvagente di giugno 2015 con il test sull’extravergine

Tra queste c’erano gli oli della Coricelli e quelli della Cirio, di cui la stessa azienda era licenziataria.

Le reazioni delle industrie, inutile dirlo, furono scomposte. Anche perché un magistrato coraggioso come Raffaele Guariniello, sostituto procuratore all’epoca della Procura di Torino, volle prendere sul serio la nostra denuncia, facendo prelevare ai Nas gli oli del test, analizzare di nuovo la loro conformità e visti gli esiti, in linea con il servizio del Salvagente, aprì altrettanti fascicoli per frode in commercio. Perfino l’Antitrust di Giovanni Pitruzzella – vale la pena sottolinearlo visto il differente atteggiamento che l’Autorità presieduta da Roberto Rustichelli ha avuto 6 anni dopo, in occasione del nostro secondo test – sanzionò per diverse centinaia di migliaia di euro le aziende coinvolte.

La vicenda è nota e ampiamente testimoniata dai nostri articoli che un lettore incuriosito non faticherà a trovare sul nostro sito.

E produsse da subito una denuncia penale da parte di Coricelli (che finì con una archiviazione che riconosceva la condotta legittima del nostro giornale) e una civile, quella che si è conclusa il 10 gennaio a Spoleto. In entrambi i casi il Salvagente, attraverso il lavoro dell’avvocato Caterina Malavenda e del suo staff, è riuscito a dimostrare come gli articoli pubblicati erano tutt’altro che diffamatori ma rientravano nel legittimo diritto di cronaca.

 

Il giornalismo di inchiesta

 

Può essere interessante – per noi lo è stato – leggere la sentenza che alleghiamo ma una parte delle motivazioni redatte a conclusione del procedimento civile dal giudice Federico Falfari merita una citazione. Anche perché, come i nostri lettori oramai sanno bene, quando nel 2021 abbiamo condotto un nuovo test sull’olio extravergine trovando ancora una volta molti oli sugli scaffali che non potevano essere definiti extravergini (7 su 15, compreso ancora una volta quello Coricelli) le reazioni delle industrie produttrici portarono a una sanzione nei nostri confronti da parte dell’Antitrust. Lungi dall’indagare su un problema quantomeno ricorrente degli extravergini venduti sugli scaffali italiani, l’Autorità decise di ammonire il Salvagente, considerando i nostri test non come inchieste giornalistiche ma come pratiche pubblicitarie.

Al contrario, per il Tribunale di Spoleto, chiamato a giudicare il nostro lavoro del 2015, si trattava di giornalismo di inchiesta, ossia di “quella specie di giornalismo che, rispetto a quello per così dire “ordinario”, che ha per oggetto la (semplice) divulgazione delle notizie, si connota per il modo autonomo in cui le notizie vengono acquisite dal giornalista, attraverso, cioè, indagini e inchieste svolte in prima persona, in completa libertà, senza l’ausilio o l’utilizzo di fonti esterne”.

Nelle 32 pagine del giudizio si legge: “Il giornalista d’inchiesta, infatti, dato che, per procurarsi informazioni e notizie di prima mano, si insinua alle volte in modo anche invadente nelle realtà e nelle sfere private dalle quali ritiene di potere trarre utili informazioni, deve agire con una particolare correttezza professionale, deve agire con una scrupolosità maggiore di quella che deve caratterizzare l’operato del giornalista “ordinario”, non deve essere solo diligente nell’utilizzare le notizie, ma deve essere, ancora prima, particolarmente diligente nella raccolta delle stesse”.

Esattamente quello che ha fatto il Salvagente – ritiene il giudice – acquistando gli oli e inviandoli in un laboratorio autorevole come quello dell’Agenzia delle Dogane. E poi esponendo i risultati trovati in maniera corretta, dando voce alle aziende coinvolte (Coricelli compresa) in una vicenda che non c’è dubbio, a giudizio del Tribunale, fosse di interesse pubblico.

Un giornalista non è un carabiniere (ma non secondo l’Antitrust)

Nelle contestazioni mosse durante il lungo processo da Coricelli, poi ce n’era una che è stata ripetuta anche quando abbiamo realizzato il secondo test e che ha portato l’Antitrust a sanzionare il Salvagente: il giornale avrebbe dovuto rispettare gli obblighi che ricadono esclusivamente sugli organi pubblici di controllo e vigilanza.

In particolare in caso di bocciatura l’azienda avrebbe potuto richiedere la revisione ed eventualmente un terzo panel test in caso di discordanze, come fanno gli enti di controllo prima di effettuare sequestri o azioni giudiziarie.

Leggiamo come si è invece orientato il giudice Falfari: “Dunque, appare chiaro come nell’ambito dell’articolo medesimo siano state riportate in modo congruo le circostanze rilevanti e non siano state omesse informazioni determinanti il senso stesso dell’articolo; non vi sono dubbi sull’esito dell’esame del panel, riportato dal giornalista, il quale chiaramente non è l’ente pubblico deputato al controllo della qualità dell’olio e alla emissione di eventuali sanzioni, e che, pertanto, non è tenuto al rispetto dei vincoli medesimi. Né l’effettuazione delle analisi in questione senza le suddette garanzie (collazionamento dei campioni in modalità “protetta” ed eventuale controanalisi dei campioni prelevati da altro “panel test”) costituisce condotta violativa della deontologia professionale, soprattutto in considerazione del fatto che neppure la Coricelli ha mai chiesto l’effettuazione di un altro esame nonostante il suo contraddittorio fosse stato sollecitato prima della pubblicazione dell’articolo”.

Un bavaglio alla stampa

Lasciamo ai lettori qualunque interpretazione su quale delle due versioni, tra quella dell’Antitrust e quella del Tribunale di Spoleto, sia più corretta.

Concentriamoci invece sugli effetti che questi lunghi procedimenti hanno sul giornalismo. Immaginatevi nei panni di un giornalista che si metta in testa di realizzare un servizio cercando le notizie attraverso un’inchiesta in prima persona, in completa libertà. E che metta le mani su un mercato importante o su ingenti interessi di un’azienda. Chi avrebbe mai il coraggio di farlo, magari senza contare sulla collaborazione di uno studio legale tanto agguerrito ed esperto come quello dell’avvocato Caterina Malavenda, sapendo che rischia una richiesta danni milionaria che si trascinerà per anni? È la storia delle cosiddette cause temerarie, raccontate ogni giorno da associazioni come Ossigeno, da sindacati come la Fnsi e Stampa romana e che finiscono per soffocare sul nascere molte delle inchieste che invece sarebbero necessarie nel nostro paese. A maggior ragione se condotte da free lance, i colleghi più esposti alle azioni legali.

Forse in questo modo si può anche spiegare perché i grandi giornali (non tutti, come dimostra il procedimento contro Repubblica) e le televisioni, tanto pubbliche che private, sono decisamente distratte quando si tratta di tirare in ballo nomi importanti (per fatturato) delle industrie. Certo, conta la pubblicità che si rischia di perdere, ma le querele temerarie fanno sicuramente effetto.

Ne volete una dimostrazione? Provate a cercare traccia del caso Fileni sollevato da Report e raccontato dalle nostre colonne. Oltre al Fatto Quotidiano sembra che nessuno dei grandi giornali lo abbia considerato interessante per i propri lettori…