Vi spiego perché, nonostante microplastiche e inquinamento, non tutto il mare è perduto

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“Non tutto il mare è perduto” è il nuovo libro di Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace: un viaggio lungo le coste italiane alla scoperta di un ecosistema soffocato da plastiche e microplastiche. Eppure le soluzioni ci sono

Non tutto il mare è perduto. Nonostate anche il Nostrum rischia di trasformarsi in una discarica di tutta la plastica e microplastica prodotta negli ultimi decenni. Lungo le coste italiane ha fatto tappa il lungo viaggio di Giueseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquianamento di Greenpeace, per raccontare lo stato di salute delle acque marine e per capire quali le soluzioni da mettere in campo per invertire una rotta che rischia di essere irreversibile.

Capraia, fiume Sarno, Stretto di Messina, il Santuario Pelagos, poi Cerboli, isole Tremiti, Conero, Brindisi: dal 2017 Greenpeace ha condotto meticolose campagne di monitoraggio nei nostri mari e oggi parte di quel lavoro Ungherese lo racconta nel suo nuovo libro “Non tutto il mare è perduto. Viaggio lungo le coste italiane
alla scoperta di un ecosistema soffocato da plastiche e microplastiche. Responsabilità e soluzioni” edito da Casti editore (130 pagine, 13 euro) con la prefazione di Giovanni Soldini.

“Il mare – ci spiega Ungherese – è un ecosistema fragile e fondamentale per la nostra vita sul Pianeta: un respiro su due lo dobbiamo proprio alla grande distesa blu. Oltre ad essere un’importante fonte di sostentamento gioca un ruolo chiave nella regolazione del clima della Terra. Abbiamo il dovere di preservarlo e siamo ancora in tempo, ma dobbiamo agire in fretta“.

La minaccia peggiore è quella – paradossalmente – meno evidente: le microplastiche: “Le microplastiche – prosegue l’autore – rappresentano la parte più subdola del problema perché invisibile. Eppure minuscole particelle sono state trovate ormai ovunque, dall’acqua all’aria, passando per pesci, sale da cucina. Partendo da queste evidenze non può sorprenderci che siano state trovate tracce di plastica nel sangue, nei polmoni e nella placenta. Oggi però non abbiamo un quadro medico-sanitario chiaro ed esaustivo sulle possibili conseguenze sulla nostra salute. Certo è che la plastica nel nostro corpo non dovrebbe esserci. Possiamo però provare a ridurre i rischi di ingestione, come indicato nel libro“.

Perché la plastica è un pericoloso boomerang

La plastica ci ha semplificato la vita ma ora rischia di “accorciarne” la durata: “Oggi utilizziamo gran parte della plastica per il monouso, ovvero applicazioni che vanno dai secondi ai minuti. Ciò rappresenta un evidente stortura per un materiale resistente e durevole che andrebbe usato meglio e invece, per oltre il 40% della produzione mondiale, è progettato per diventare un rifiuto di difficile gestione e recupero a fine vita. Sono proprio le caratteristiche della plastica (estrema resistenza e scarsa biodegradabilità) che si trasformano in un clamoroso boomerang per noi e per il mare, l’ecosistema naturale che paga i danni più evidenti”.

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Tra le soluzioni proposte per ridurre l’impatto della plastica c’è il deposito su cauzione, un sistema che dovrebbe essere vigente da anni in Italia che, tra l’altro, è una delle nazioni che consuma le maggiori quantità di bottiglie in plastica per le bevande. “Mi auguro – aggiunge Ungherese – che i ministeri competenti redigano il decreto attuativo in tempi brevi estendendolo però a tutti i contenitori per liquidi alimentari, anche quelli in metallo e altri materiali, e introducendo un obbligo per quote crescenti di imballaggi riutilizzabili come ha fatto recentemente l’Austria. Con un efficace sistema a regime, si può facilmente ricorrere a imballaggi riutilizzabili che, come evidenziano numerose ricerche internazionali, nella stragrande maggioranza dei casi risultano le opzioni meno impattanti”.

Solo il 10% della plastica si ricicla

Siamo arrivati a un punto di non ritorno visto il riciclo – pur importante – non riesce a smaltire tutta la plastica prodotta. E allora come se ne può uscire? “Per anni, sotto la spinta di aziende e governi, abbiamo creduto che la plastica potesse essere riciclata. I dati invece ci dicono che di tutta quella prodotta a partire dagli anni 50, solo il 10% per cento è stato correttamente riciclato. Il resto è finito in discariche già stracolme, bruciato negli inceneritori o disperso nell’ambiente. È necessario quindi cambiare punto di vista e, anziché tentare di gestire al meglio quantità crescenti di rifiuti, bisogna trovare il modo di produrne meno migliorando il design dei prodotti, affinché siano realmente riciclabili, ma soprattutto investendo sullo sfuso e su sistemi di ricarica: queste ultime sono soluzioni già messe in atto da tante realtà di cui diamo conto nel libro”.