Uno strumento per scoprire se i prodotti a base di pomodoro venduti come italiani lo sono davvero esiste già, ed è disponibile in Italia. Solo che l’industria, che per altro ha finanziato lo sviluppo delle tecniche di analisi in questione, non lo ha usato per anni. A raccontarlo è l’inchiesta di Investigative reporting project Italy (IrpiMedia) e Cbc Canada, cui il Salvagente ha già dedicato un articolo sui prodotti almeno in parte, sono collegati a un sistema di capillare repressione che il governo di Pechino applica nei confronti della minoranza etnica degli uiguri.
Il test
In quella stessa inchiesta, Irpi Media scrive: “Esiste infatti un test di laboratorio che permette di rintracciare l’origine della materia prima con un elevatissimo grado di sicurezza. Lo si fa attraverso la mappatura degli elementi minerali osservati nel tubetto di concentrato o nella bottiglia di passata. Questi vengono poi comparati a valori di riferimento – ricavati attraverso l’analisi di campioni certi – che distinguono la provenienza del pomodoro. In altre parole, la concentrazione di metalli come rame, litio o cobalto può dirci se il pomodoro utilizzato nella conserva è italiano o estero”. A sviluppare il test, attraverso una ricerca partita nel 2012, è stata la Stazione Sperimentale per l’Industria Conserve Alimentari (Ssica), un istituto di ricerca con sede a Parma e Angri, in provincia di Salerno.
Costituita nel 1922 come ente pubblico, la Ssica si pone l’obiettivo di facilitare l’innovazione dell’industria conserviera attraverso progetti di ricerca e consulenze specifiche. E a finanziare la propria attività sono i contributi annuali che le aziende di trasformazione sono obbligate a versare. Dal 2016 è diventata una fondazione nazionale di ricerca i cui i ruoli di comando vengono spartiti tra la Camera di Commercio di Parma e le organizzazioni degli industriali, soprattutto Confindustria. In questi anni, sotto la guida del tecnologo Antonio Trifirò, il Dipartimento Conserve Vegetali ha sviluppato con successo il test multi-elementare per la ricerca dell’origine del pomodoro. I ricercatori raccolgono 183 campioni certificati – l’ossatura della banca dati -, definiscono il protocollo per l’analisi delle componenti minerali e, infine, pubblicano i risultati su due riviste scientifiche sottoposte a peer-review, tr cui Food Control.
La denuncia dell’ex ricercatore
I ritardi
Agli inizi del 2020 un’azienda di conserve invia per la prima volta una richiesta per sottoporre dei prodotti rivali al test multi-elementare. “La richiesta inviata dall’azienda inizialmente rimane lettera morta – scrive Irpimedia – Dopo alcuni mesi la Ssica invia una risposta negativa: non è possibile realizzare le analisi – dicono i vertici della Stazione – perché il protocollo deve ancora essere validato scientificamente attraverso la creazione di un ‘dataset analitico, robusto e completo’. Nonostante gli anni di ricerca e il doppio riconoscimento della validità del test a livello internazionale”. L’azienda fa analizzare i campioni in un altro laboratorio indipendente, il quale ipotizza la presenza di pomodoro non italiano, non dichiarato sull’etichetta. La Ssica risponde dicendosi disponibile a ricevere gli stessi campioni, ma passa ancora del tempo. Solo nel maggio 2021,, poche settimane dopo che il blitz dei Carabinieri nello stabilimento del gruppo Petti di Livorno, il laboratorio di Parma analizza i campioni dell’azienda confermando i sospetti: “I valori non sono compatibili con una zona d’origine italiana”. Secondo il responsabile di Ssica, “il rallentamento è stato causato dalla straordinaria emergenza pandemica, ancora in corso, che ha bloccato diverse attività interne ed esterne alla Ssica”.
Lo spartiacque che ha messo in moto la macchina delle analisi
Secondo l’inchiesta, invece, c’è anche dell’altro: “Fonti interne all’industria raccontano che l’intervento dei Carabinieri è stato un vero spartiacque per la tracciabilità dei derivati del pomodoro – scrive IrpiMedia – Prima ignorato, se non proprio ostracizzato, oggi il test multi elementare sta diventando sempre più richiesto. Senza che nulla sia cambiato dal punto di vista della messa a punto del test, da maggio 2021 ne sono stati effettuati almeno 40, contro gli zero svolti nei quattro anni precedenti. A richiederli sono le forze dell’ordine, in primis, ma anche da operatori della grande distribuzione che vogliono certificare l’origine dei prodotti forniti dai trasformatori”.
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