Un’Europa a due velocità. Contrapposte. Da un lato c’è la strategia Farm to fork – dal produttore al consumatore – della Commissione europea che corre verso il Green deal fissando traguardi di sostenibilità agricola e ambientale da raggiungere entro il 2030, come la riduzione del 50% di pesticidi nei campi e di antibiotici negli allevamenti e di arrivare al 25% di superficie agricola coltivata a biologico. Dall’altro lato in direzione ostinata e contraria troviamo la Pac, la Politica agricola comune, che garantirà 391 miliardi – il 39% circa del bilancio della Ue – nei prossimi sette anni all’attuale standard produttivo che mal si concilia con la prospettiva “verde” tracciata da Ursula Von der Leyen.
“È un tiro alla fune dove al momento a prevalere è il solito modello intensivo che continua a essere finanziato con le sue contraddizioni, ovvero con il 20% delle aziende più grandi che si aggiudicano l’80% dei contributi diretti e dove i pagamenti ‘verdi’, il cosiddetto greening, i premi che sulla carta dovevano in questi ultimi sette anni incentivare la biodiversità e la riduzione dei fitofarmaci, si sono rivelati un vero e proprio ‘imbroglio ecologico’”. Franco Ferroni, responsabile Agricoltura del Wwf Italia è membro della coalizione Cambiamo l’agricoltura, una folta schiera di associazioni ambientaliste, animaliste e del biologico che chiedono, insieme ad altre realtà europee, un cambio di passo nella definizione della Pac anche e soprattutto per tagliare i traguardi indicati dal Green deal della Commissione della Von der Leyen.
Nel nuovo numero del Salvagente (in edicola e in abbonamento) abbiamo dedicato un lungo approfondimento alle contraddizioni dei fondi europei per il sostegno all’agricoltura.
Nata già vecchia
La “nuova” Pac 2021-2027 nasce però già vecchia. I dissidi tra Consiglio europeo, Europarlamento e Commissione hanno infatti partorito prima del Natale scorso un compromesso che di fatto proroga di due anni la “vecchia” Politica agricola, scaduta proprio il 31 dicembre 2020. “Così facendo però – aggiunge Ferroni – si sottraggono risorse e anche due anni di tempo per tentare di ripensare il modello agroalimentare europeo e non si risolvono le contraddizioni della Pac precedente”. I finanziamenti destinati all’Italia, per il periodo 2014-2020, ammontavano a 52 miliardi, 41,5 “investiti” dall’Europa e 10,5 dall’Italia. Cifre grosso modo confermate anche per il prossimo settennato.
Per capire quello che non va, o che potrebbe andare meglio per gli agricoltori e per l’ambiente, bisogna capire come funzionano i pagamenti europei. Se fino agli anni Settanta i contributi venivano concessi in base al raccolto o ai capi posseduti, secondo il principio “più produci, più ricevi”, attraverso i famosi pagamenti “accoppiati”, ossia legati alla quantità raccolta o allevata, – creando paradossi come quelli delle arance che venivano coltivate sono per prendere il contributo e poi distrutte -, nel tempo con due riforme le erogazioni sono cambiate.
“I pagamenti della Pac – spiega ancora il responsabile Agricoltura del Wwf – sono organizzati in due pilastri. Nel primo, 27 miliardi di fondi, troviamo sostanzialmente i pagamenti diretti – 58% del totale -, concessi in base alla superficie coltivata e ai titoli storici, e i pagamenti accoppiati – pesano per l’11%, circa 3 miliardi – riservati, per scelta degli Stati membri, ad alcune filiere: da noi sono rivolti alla zootecnica, alle colture proteiche per i mangimi e alll’olivicoltura. Infine ci sono i premi verdi, greening, che da soli valgono il 30% del totale. Il secondo pilastro, 21 miliardi di risorse, è il cosiddetto Sviluppo rurale affidato alle regioni per l’ammodernamento delle tecnologie, il sostenimento dell’agricoltura conservativa, sostenibile e quella biologica alla quale è destinata la fetta più piccola dei contributi”.
A chi va la fetta maggiore
Naturalmente una misura non esclude l’altra ovvero una stessa azienda, agricola o zootecnica, può aggiungere al pagamento diretto, uno accoppiato e magari ricevere anche fondi per l’acquisto di trattori più efficienti o di stalle meccanizzate.
È interessante capire a quali aziende vengono assegnate le risorse maggiori. Partiamo da un dato: in Italia la superficie media aziendale dichiarata è pari a 8 ettari a fronte dei 52 ettari della Francia, i 46 ettari della Germania, e i 24 ettari della Spagna. In buona sostanza ci sono tante ma piccole aziende agricole che percepiscono un pugno di contributi europei: 492mila imprese su 1,136 milioni di beneficiari, ricevono meno di 500 euro all’anno. Sono invece solo 3.240 le aziende italiane che beneficiano maggiormente della Pac con contributi annui che vanno da 100mila a oltre 500mila euro. “In buona sostanza – precisa Ferroni – la fetta più grande dei finanziamenti, l’80%, è riservata alle realtà più grandi, che sono appena il 20% dei beneficiari”.
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E allora vediamo chi sono i big che fanno il pieno di contributi europei. Secondo i dati pubblicati dalla DG CONT della Commissione UE che individua i “50 più grandi beneficiari in ogni Stato membro dell’Ue dei fondi Pac e Fondi di Coesione” (scarica qui lo studio completo) nei primi dieci posti ci sono le mele del Trentino (che oltre ai fondi della Pac fanno pure il pieno di pesticidi), l’olivicoltura e due grandi società ortofrutticole (la prima, la italo-francese Finaf, è al terzo posto in Europa per contributi ricevuti, la seconda invece è una grande società consortile di Cesena, la Aop gruppo Vi.va). Mentre la prima società zootecnica, esattamente di allevamento di suini, per contributi ricevuti è la Società agricola Corticella Srl (27° posto con 3,080 milioni ricevuti). Di seguito la lista completa:
Se i pagamenti diretti non sono finalizzati, ovvero riguardato tutti i tipi di colture e di animali da allevamento, discorso diverso per gli accoppiati decisi dai singoli Stati membri. E qui la fetta più grande è riservata alla zootecnia che, secondo le stime, solo in questo comparto si aggiudica il 70% dei 3 miliardi previsti. Se poi aggiungiamo i contributi per le coltivazioni destinate ai mangimi, come la soia e il favino, le filiere degli animali da carne o da latte sono quelle più “premiate” in Italia. Senza dimenticare che a queste risorse vanno aggiunte le “dirette” del primo pilastro e quelle eventuali dei Piani di sviluppo rurale. I fondi destinati agli allevamenti insomma sono tanti, ma a quanto ammontano? “Sono tanti ma purtroppo – risponde Ferroni – non abbiamo una cifra complessiva perché né Ismea né Agea, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura, forniscono questo tipo di dati”.
L’imbroglio del “greening”
Ma servono tutte queste risorse al comparto? Angelo Gentili è il responsabile Agricoltura di Legambiente: “Si continua a finanziare agricoltura intensiva e zootecnia senza ridurre l’impatto ambientale. Gli animali vengono nutriti anche con la soia importata dall’estero, come quella dal Sud America, tra le colture responsabili della deforestazione. C’è poi il capitolo dei liquami degli allevamenti che aumentano la presenza di nitrati nel terreno. Invece di continuare con i finanziamenti a pioggia, bisognerebbe ridurre la densità degli animali per stalla, tagliare tutte le emissioni climalteranti e il consumo di acqua: per produrre un chilo di carne bovina ricordiamoci che ne servono più di 600 litri”.
Prima ancora che la Commissione Von der Leyen annunciasse il cambio di rotta, la “vecchia” Pac – prorogata fino al dicembre 2022 – ha introdotto il capitolo greening, quello dei pagamenti “verdi”, circa 9 miliardi per l’Italia, con il quale ha provato a premiare l’impegno delle aziende per la biodiversità, la diversificazione delle colture e la riduzione della chimica. “Alla prova dei fatti – accusa il responsabile Agricoltura del Wwf – il greening si è rivelato un vero e proprio imbroglio ecologico”.
I premi “verdi” sono rivolti esclusivamente agli agricoltori che percepiscono i pagamenti diretti – aziende che devono avere una dimensione di almeno 5mila metri quadrati – e per questo devono impegnarsi a favorire la biodiversità ad esempio destinando il 5% della Sau, la Superficie agricola utile, alle Efa, le Aree di interesse ecologico dove piantare alberi, siepi o prevedere ruscelli e stagni, delle fasce tampone per limitare la coltivazione intensiva.
“Dal rispetto di questi obblighi e dai relativi pagamenti – attacca Ferroni – è esclusa il 57% della superficie agricola italiana che fa riferimento a più dell’80% delle imprese che non raggiungono le dimensioni minime per i sovvenzionamenti”. In altre parole, ancora un premio per i più grandi.
Non solo. La normativa ha previsto pure delle “scappatoie” per evitare la realizzazione delle Efa o per renderle meno “onerose” per le aziende. Ci spiega ancora l’esperto del Wwf: “La normativa ha previsto l’introduzione di colture equivalenti a quelle boschive come le colture leguminose che sono piante da reddito: è vero che azotano il terreno e possono ridurre l’uso dei fertilizzanti nei terreni ma dal punto di vista ambientale quello che può fare un albero o una siepe non ha paragoni”. L’escamotage dell’uso nasconde un’altra trappola. “È previsto – conclude Ferroni – che durante il ciclo colturale non possono essere impiegati pesticidi. Ma questo divieto dura appunto dalla semina al raccolto, nessuno vieta di ad esempio di diserbare in presemina, magari con il glifosato”. Portandosi a casa lo stesso il premio “verde”.