Uno studio tutto italiano che, per la prima volta, ha voluto tracciare la contaminazione di bisfenolo A nella filiera del latte. Partendo dall’inizio, ossia dall’alimentazione dei bovini, dal foraggio.
Lo studio, condotto dagli scienziati del Dipartimento di medicina veterinaria e produzione animale dell’Università di Napoli e dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno di Portici, pubblicato nel numero di febbraio del Journal of Dairy Science, fa il punto su uno dei più conosciuti distruttori endocrini, il BPA. Una sostanza che assieme a molti altri composti (come gli ftalati) può dare problemi anche a basse concentrazioni in caso di assunzione costante per lunghi periodi, provocando danni sui bambini anche a livello fetale e perfino, come ipotizzano numerose ricerche, anomalie a livello degli apparati sessuali agli adolescenti.
Non a caso già da molti anni il suo uso è stato vietato nelle tettarelle dei biberon.
Gli autori dello studio, Serena Santonicola, Maria Carmela Ferrante, Nicoletta Murru, e Raffaellina Mercogliano tutti del Dipartimento di medicina Veterinaria della Federico II e Pasquale Gallo dell’Izs di Portici hanno voluto quantificare la presenza di bisfenolo dal foraggio fino al latte appena arrivato alle Centrali del latte.
Come è stato cercato il bisfenolo
I ricercatori hanno scelto volutamente aziende zootecniche nelle zone meno contaminate della Campania (situate in zone montuose, lontane da aree industriali) per limitare la contaminazione ambientale, particolarmente evidente nel caso del bisfenolo. E sono andati a misurare il Bpa prima nel foraggio prodotto in azienda e poi nel latte ottenuto da animali alimentati con quel mangime. Per questo secondo monitoraggio hanno misurato la presenza nel latte munto a mani nude (senza uso di guanti che avrebbero potuto contaminare il prodotto); raccolto attraverso una mungitrice meccanica e infine in quello delle vasche in acciaio di raccolta.
In ogni caso è stato trovato bisfenolo dopo la mungitura, come ci racconta la dottoressa Raffaellina Mercogliano, anche se con concentrazioni diverse: 0,757 μg/l nei campioni munti a mano, 0,580 μg/l in quelli passati attraverso la mungitura meccanica e 0,797 μg/l nel latte presente nel serbatoio di raffreddamento.
“Ci si aspettava che nella mungitura a mano si trovasse il valore più basso – spiega la dottoressa Mercogliano – e invece così non è stato”. Segno evidente che più del sistema utilizzato contino le contaminazioni ambientali per la presenza del bisfenolo.
Il latte che beviamo è sicuro?
Impossibile non porre alla dottoressa la domanda: il latte che bevono i nostri bambini e noi stessi è sicuro?
“Diciamo subito che le dosi trovate sono abbondantemente sotto quelle giornaliere ammissibili stabilite dall’Efsa temporaneamente”. Temporanee perché si tratta di limiti precauzionali che vengono fissati quando ancora gli studi sugli effetti di una sostanza non sono del tutto chiari e per ora sono fissati a 4 μg per chilo di peso corporeo dell’essere umano. Non solo, i ricercatori hanno voluto anche fare una valutazione del rischio in base all’età e al consumo medio di latte e formaggi. “In tutti i casi siamo sempre al di sotto delle dosi ammesse dall’Efsa” ci dice la dottoressa.
E se le condizioni ambientali fossero peggiori?
Lo studio, però, è una prima pietra importante per capire qualcosa in più della contaminazione di questo pericoloso interferente endocrino e possibilmente limitarne l’invadenza. Vale la pena riflettere, infatti, sul fatto che i ricercatori hanno scelto di fare misurazioni nelle condizioni migliori possibili. Se in aziende che lavorano in condizioni ambientali pressoché ideali come quelle prese in considerazione, il bisfenolo si trova, cosa succederà in impianti più esposti? E cosa accadrà dopo il contatto con gli imballaggi (altro possibile fattore contaminante)?
“È vero, queste sono le condizioni migliori possibili, ora vorremmo andare avanti misurando quello che accade dopo i trattamenti che il latte subisce in centrale (il passaggio attraverso i tubi e il trattamento termico, ndr) e dopo un confezionamento in un’azienda che non utilizza imballaggi sospetti di cedere il BPA”, ci spiega la dottoressa Mercogliano. Un altro passo importante, sempre che i ricercatori italiani trovino i fondi per farlo, a cui poi ne potrebbero seguire altri. “Vorremmo continuare a monitorare alimenti come la carne, il pesce, sempre nell’ottica di trovare soluzioni per industria e consumatori” ci dice la dottoressa Mercogliano.
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Auguri.