“Sappiamo sempre quando ci sarà una visita dall’Italia di un ispettore o di un dirigente perché i nostri superiori aprono prima le porte e le finestre, e accendono l’aria condizionata. Normalmente, ci viene detto ‘Non aprite la porta se non volete essere licenziati”. A parlare è una lavoratrice di una delle tante fabbriche in Serbia che producono vestiti e scarpe destinate al mercato europeo. Sfruttati, in condizioni lavorative non dignitose, con salari ben al di sotto del livello di sussistenza, consegnano i loro manufatti ad aziende che riforniscono anche grossi marchi come Geox, Benetton, Esprit, Triumph e Vera Moda. A dirlo è il nuovo rapporto “L’Europa dello sfruttamento” curato dalla Clean Clothes Campaign, basata su un’inchiesta sulle dure condizioni di lavoro nell’industria tessile e calzaturiera dell’Est e Sud-Est Europa, soprattutto in Ungheria, Ucraina e Serbia. Ad esempio, molti lavoratori in Ucraina, nonostante gli straordinari, guadagnano appena 89 euro al mese in un Paese in cui il salario dignitoso dovrebbe essere almeno 5 volte tanto.
“A volte non abbiamo niente da mangiare”
“Per questi marchi i Paesi dell’Est e Sud-Est Europa rappresentano paradisi per i bassi salari – scrive il rapporto – Molti brand enfatizzano l’appartenenza al “Made in Europe”, suggerendo con questo concetto “condizioni di lavoro eque”. In realtà, molti dei 1,7 milioni di lavoratori e lavoratrici di queste regioni vivono in povertà, affrontano condizioni di lavoro pericolose, tra cui straordinari forzati, e si trovano in una situazione di indebitamento significativo”. Le conseguenze sono terribili. “A volte semplicemente non abbiamo niente da mangiare”, ha raccontato una lavoratrice ucraina. “I nostri salari bastano appena per pagare le bollette elettriche, dell’acqua e dei riscaldamenti” ha detto un’altra donna ungherese. Quando i lavoratori serbi chiedono perché durante la calda estate non c’è aria condizionata, perché l’accesso all’acqua potabile è limitato, perché sono costretti a lavorare di nuovo il sabato, la risposta è sempre la stessa: “Quella è la porta”.
Sgravi in cambio di lavoro malpagato
“Ci pare evidente che i marchi internazionali stiano approfittando in maniera sostanziosa di un sistema foraggiato da bassi salari e importanti incentivi governativi” dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign. “In Serbia, ad esempio, oltre ad ingenti sovvenzioni, le imprese estere ricevono aiuti indiretti come esenzione fiscale fino a per dieci anni, terreni a titolo quasi gratuito, infrastrutture e servizi. E nelle zone franche sono pure esentate dal pagamento delle utenze mentre i lavoratori fanno fatica a pagare le bollette della luce e dell’acqua, in continuo vertiginoso aumento” continua Deborah Lucchetti.
Salario minimo legale? Quasi mai
Secondo il rapporto: “In Ucraina e Serbia, i rapporti sui lavoratori rivelano che la maggior parte di essi non riceve il salario minimo legale. È ad esempio il caso di una parte dei lavoratori di Geox in Serbia; della maggior parte dei lavoratori serbi presso i fornitori e i subfornitori di Benetton, Esprit, Bestseller/Vero Moda e dei lavoratori ucraini di Triumph. Accuse pesanti per cui il Salvagente sarà lieto di ospitare eventuali repliche da parte delle aziende coinvolte.
La normative da cambiare
Ma com’è possibile che il Made in Italy sia prodotto tramite questa filiera sporca? Secondo la campagna l’origine del problema risale agli anni Settanta, quando un gruppo di governi guidato da quelli tedesco e italiano, stabilì il regime di Traffico di Perfezionamento Passivo in Europa (TPP) verso l’Europa centrale, orientale e sud- orientale. Il regime permette alle aziende dell’Unione europea di mandare le materie prime nelle fabbriche dell’Est per trasformarle in prodotto finito. Basta poi completare il confezionamento nel paese d’origine del marchio per etichettare la scarpa o l’abito come prodotto interamente in patria. La Campagna Abiti Puliti chiede ai marchi coinvolti di adeguare i salari corrisposti al livello dignitoso e di lavorare insieme ai loro fornitori per eliminare le condizioni di lavoro disumane e illegalidocumentate in questo rapporto.
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