Il Made in Italy sulle spalle dei lavoratori, tra sfruttamento e concorrenza sleale. Il nuovo report di Abiti puliti

tessile abiti

Un nuovo rapporto pubblicato dal Fair Trade Advocacy Office e basato su una ricerca sul campo condotta dalla Campagna Abiti puliti, chiarisce i meccanismo di pratiche commerciali sleali nell’industria europea dell’abbigliamento, anche in Italia.

Il mercato del lusso “si è sempre più trasformato in fast fashion, nel senso che si è andati verso una maggiore frammentazione degli ordini con minori tempi di consegna: dalla progettazione alla consegna del prodotto finito [c’è] pochissimo tempo perché la competizione tra i marchi del lusso si gioca sulla capacità di arrivare al negozio il più velocemente possibile, un’urgenza che porta a stressare la catena di fornitura” e dunque a finire spesso a pesare sulle spalle dei fornitori e dei lavoratori. A dirlo è un revisore sociale italiano (figura professionale esperta in bilancio, contabilità e controllo delle carte, ndr), parlando della filiera tessile italiana. 

Il rapporto

La sua testimonianza è contenuta nel nuovo rapporto pubblicato dal Fair Trade Advocacy Office e basato su una ricerca sul campo condotta dalla Campagna Abiti puliti, curato in Italia da Deborah Lucchetti (Fair) e dal giornalista Luca Martinelli, che chiarisce i meccanismo di pratiche commerciali sleali nell’industria europea dell’abbigliamento, anche in Italia.

Basato su interviste a fornitori, esperti e rappresentanti sindacali in sei Stati membri dell’UE – Bulgaria, Romania, Croazia, Repubblica Ceca, Italia e Germania – il rapporto “Fast Fashion Purchasing Practices in the EU. Business relations between fashion brands and suppliers” restituisce una panoramica chiara delle relazioni commerciali rischiose e squilibrate tra marchi e produttori.

Prezzi più bassi, tempi stretti

La ricerca ha evidenziato una tendenza generale alla riduzione dei prezzi, all’accorciamento dei tempi di consegna, all’aumento dei cambi d’ordine, all’allungamento dei termini di pagamento e all’aumento dei costi “nascosti”, come la produzione dei campioni iniziali, che vengono trasferiti ai produttori. Tutto ciò mette in difficoltà i fornitori, che non sono in grado di effettuare investimenti e pagare gli stipendi.

La bilancia sbilanciata a favore dei grandi marchi

Un fornitore italiano ha dichiarato che “i contratti proposti dai marchi non prevedono mai un impegno sulle quantità da produrre e nemmeno un impegno sui prezzi. I ‘contratti’ per i marchi consistono nel dire che il fornitore deve rispettare la qualità e i tempi di consegna perché se non lo fa scattano le penali. Non vengono mai inserite clausole di salvaguardia ‘a tutela degli interessi del fornitore’”

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La determinazione dei prezzi è fondamentale, ma di solito inizia con la stima del prezzo al dettaglio desiderato da parte del marchio o del distributore; i materiali, la manodopera e gli altri costi di produzione vengono presi in considerazione solo successivamente. Di conseguenza, la ricerca ha rilevato un divario tra quanto viene pagato ai fornitori per la manodopera e quanto sarebbe necessario per coprire i costi dei datori di lavoro, compresi i contributi previdenziali obbligatori e le tasse. In Italia, ad esempio, ciò significa 18 euro all’ora pagati ai fornitori contro i 24 euro all’ora del costo lordo per i datori di lavoro.

Numeri che non quadrano

Un auditor sociale che ha lavorato per un marchio internazionale spiega che in precedenza calcolava le ore totali lavorate in un mese dividendo il fatturato dell’azienda per un costo del lavoro standard per minuto di cucitura, calcolato sulla base del salario minimo. Tuttavia, se il numero di ore lavorate era significativamente superiore al numero di lavoratori impiegati, ciò poteva indicare un eccesso di straordinari o l’utilizzo di subappaltatori non dichiarati. “Di solito prendevo il fatturato dell’azienda che stavo controllando, lo dividevo per 0,30 [costo del lavoro per minuto di cucitura calcolato sulla base del salario minimo] e questo mi dava le ore lavorate nel mese.

Se il numero totale di ore era di 3mila e c’erano solo 10 lavoratori, il fatturato può essere raggiunto solo da straordinari eccessivi o da subappalti non dichiarati”. Un altro ‘intervistato ha inoltre sottolineato che il costo standard del lavoro per minuto per la cucitura, pari a 0,30-0,40 euro per i fornitori italiani, è troppo basso, in quanto paga i fornitori solo 18 euro all’ora, il che non è sufficiente a coprire i costi lordi del lavoro del datore di lavoro, compresi i contributi sociali obbligatori e le tasse, che ammontano ad almeno 24 euro.

In alcuni casi, i fornitori accettano prezzi bassi solo per mantenere la relazione o per sopravvivere, a volte senza realizzare alcun profitto. Inoltre, quando i fornitori dipendono fortemente da un solo acquirente, il rischio di fallimento è molto alto. Un esempio è la fabbrica di Orljava in Croazia, costretta a chiudere quando il marchio tedesco Olymp ha ritirato gli ordini nel 2020.

I costi ombra

Un fornitore italiano critica questo approccio osservando che il calcolo dei prezzi per minuto di cucitura “dovrebbe tenere conto di tutti quei costi ‘ombra’ che non sono direttamente correlati ai tempi di evasione degli ordini, ad esempio i costi per le misure di sicurezza”.

Il rapporto si concentra su due grandi gruppi di produzione di abbigliamento in Europa: il sistema moda italiano e la produzione dell’Europa centro-orientale e sud-orientale. I marchi che si riforniscono dai produttori intervistati includono ASOS, Metro, MS Mode, Moncler e Otto Group. Presenti anche alcuni marchi di lusso, non citati esplicitamente su richiesta dei partecipanti alla ricerca.

I contratti non scritti

contratti scritti tra acquirenti e fornitori sono rari e, quando esistono, le loro condizioni sono fortemente sbilanciate a favore di marchi e distributori. “Il contratto con Moncler era come un libro, cioè proteggevano così tanto il loro marchio che se pensavano di aver perso un pezzo, potevi trovarti a offrire risarcimenti tali da andare in bancarotta“, ha detto un intervistato. Un altro fornitore ha aggiunto: “Abbiamo voce in capitolo nelle trattative, ma spesso ci fanno pressione. Cerchiamo di resistere. Il processo di negoziazione è lungo e difficile“.

Il Covid ha peggiorato la situazione

La crisi di Covid-19 ha ulteriormente esacerbato gli impatti negativi degli squilibri di potere tra acquirenti e fornitori. Molti marchi hanno annullato o sospeso gli ordini lasciando lavoratori e lavoratrici senza reddito, soprattutto nei Paesi con reti di sicurezza sociale estremamente deboli.

Le soluzioni possibili

Sono necessarie soluzioni urgenti per eliminare le pratiche commerciali sleali dalle catene di fornitura tessili. In particolare le organizzazioni, nella parte finale del rapporto “Fast Fashion Purchasing Practices in the EU“, chiedono: il pagamento degli ordini entro 60 giorni; prezzi che coprano i costi di produzione e garantiscano salari dignitosi per i lavoratori; un indennizzo per i cambiamenti degli ordini; una chiara definizione dei termini di rischio e della proprietà dei beni. Le raccomandazioni includono anche un appello all’Unione Europea affinché adotti una direttiva che vieti le pratiche commerciali sleali nel settore dell’abbigliamento, come i ritardi nei pagamenti e i prezzi inferiori ai costi di produzione, garantisca un’applicazione efficace della normativa e fornisca indicazioni dettagliate su come i marchi e i distributori possano garantire e sostenere la libertà di associazione, la contrattazione collettiva e i salari dignitosi lungo le loro catene di fornitura.