Un dibattito cortese ma senza giri di parole tra due dei maggiori promotori del cibo made in Italy nel mondo: Oscar Farinetti, patron di Eataly e Carlin Petrini, fondatore di Slow Food. Due modi diversi di intendere il cibo di qualità (molto imprenditoriale, con dei centri commerciali gourmet, il primo, e una rete di presidi territoriali dal basso, il secondo) che sulle pagine di Repubblica si confrontano sulla produzione italiana a partire dalle polemiche sul grano tricolore. Ad inizio agosto Farinetti era stato sommerso dalle polemiche dopo aver dichiarato in tv che il grano italiano è di una qualità troppo bassa per produrre la pasta che serve per il mercato interno ed estero, oltre ad essere troppo poco.
Farinetti: “Protezionismo non è soluzione”
Per questo ha deciso di tornare sulla questione, mettendo i puntini sulle i: “In Italia produciamo 4 milioni di tonnellate di grano l’anno. Ma ce ne servono tra 7 e 8. Per fortuna, perché significa che vendiamo molta pasta nel mondo. Il risultato però è che dobbiamo importarlo per forza. E non solo per un problema di quantità. Il nostro Paese è troppo piccolo, ha solo lo 0,2% delle terre emerse e appena 14 milioni di ettari coltivabili”. Farinetti aggiunge: “Ci sono aree più vocate di noi ai cereali come Canada, Australia e Usa dove si riesce a fare coltura intensiva di buona qualità che dà granella con più proteine e glutine e meno ceneri, quello che serve per rendere la pasta elastica e tenerla al dente”. Il patron di Eataly spiega che non intende dire che il grano italiano è di scarsa qualità, e che i contadini fanno bene a lamentarsi perché il grano è pagato una miseria. “La soluzione a questo problema però non è il protezionismo – ma lavorare sulla qualità, valorizzando la biodiversità garantita dalla posizione felice del nostro territorio”.
Petrini: Il problema sono gli speculatori
Il fondatore di Slow Food, premettendo che non vuole litigare con Farinetti, non manca l’occasione per controbattere: “Nessuno fa il peana di tutto quello che produciamo in Italia. E anche all’estero, è ovvio, ci sono prodotti di ottimo livello. Il tema però è un altro: l’abnorme distorsione creata dalla speculazione sui prezzi. Il grano è pagato oggi come nel 1986. Come se un operaio prendesse lo stipendio di 30 anni fa. E non si può dire che il tema sia la qualità. Prenda il latte. Con quello italiano si fanno formaggi Dop più pregiati di quelli francesi. La sua bontà, insomma, non si discute. Eppure viene pagato una miseria”. Secondo Petrini gli speculatori sono “La grande finanza. Come la borsa cerealicola di Chicago che fa il bello o il cattivo tempo. O i furboni che stoccano le derrate per poi tirarle fuori al momento giusto e muovere i mercati a loro piacimento”.”Dal grano al pane – continua il patron di Slow Food – i prezzi aumentano del 1.500%. Dalla spiga alla pasta che finisce sugli scaffali del 500%. Come se per fare un kg. di pagnotte si utilizzassero 15 chili di frumento. In questo momento a beneficiarne sono i trasformatori e l’industria”.
“Importare grano senza sensi di colpa”
Anche su come uscire dallo stallo dei prezzi miseri e dell’acqua alla gola per molti produttori di latte e grano, le ricette dei due numeri uno del made in Italy alimentare si discostano. Per Farinetti, “Gli agricoltori devono pensare a seminare cultivar antichi e trattarli in modo biologico. Guadagnerebbero molto di più anche con minor resa dei campi”, e ancora “Il nostro obiettivo deve essere quello di esportare sempre più pasta all’estero. Utilizzando (e pagando bene) i cereali di qualità che ci sono in Italia e comprando all’estero la materia prima dello stesso livello che qui non c’è senza sentirsi in colpa”.
“Serve alleanza tra agricoltori e imprenditore”
Per Petrini, invece, “Va trovata un’alleanza tra agricoltori e buoni imprenditori del settore, rinunciando agli interessi di parte. La qualità italiana va pagata. E il grano e il latte sono due elementi distintivi della nostra identità da salvaguardare. La stella polare è il consumatore: guardi cosa è successo con l’olio di palma. È bastato che un’azienda ci rinunciasse per trainare tutti gli altri. E sa perché? Mica per sensibilità ambientale. Perché le vendite del prodotto più virtuose sono schizzate. E i concorrenti hanno dovuto adeguarsi. La gente chiede trasparenza, non solo una narrazione positiva. E chi la garantisce è premiato con margini maggiori”.
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Sulla trasparenza tutti d’accordo
Solo su un punto i due si trovano d’accordo: la necessità di aumentare la trasparenza nei confronti dei consumatori. Petrini dichiara: “Io ho suggerito a molte aziende di spostare parte dei budget pubblicitari sull’informazione relativa ai prodotti che vendono. Gli agricoltori e l’hanno capito da tempo e spingono per l’etichettatura sulle origini degli ingredienti. È interesse anche degli industriali seguire questo processo di trasparenza”. Farinetti rafforza il concetto: “Io comunque sono d’accordo con chi propone l’etichetta trasparente. Si scrive da dove arrivano tutti gli ingredienti. Poi decide il consumatore“.