Eni sarà la prima compagnia petrolifera a mettere le trivelle nei mari dell’Alaska. L’amministrazione Trump ha, infatti, approvato i permessi di locazione per l’azienda italiana che sarebbero scaduti a fine anno. Tra questi permessi c’è anche quello per cercare petrolio da un’isola artificiale nel Mare di Beaufort, zona delicata perché vicina ad un santuario marino che Obama ha cercato di proteggere durante il suo ultimo mandato, vietando le trivellazioni. Ma Eni e gli altri giganti dell’oil&gas hanno trovato terreno fertile con l’amministrazione Trump, il cui unico obiettivo sul fronte energetico è massimizzare la produzione di combustibili fossili per uso domestico e per l’esportazione.
A preoccupare il fronte del “No” non sono solo le potenziali perdite e fuoruscite degli impianti ma l’intera macchina burocratica. Kristen Monsell, legale del Center for Biological Diversity ha spiegato come il piano Eni richiede pozzi che potrebbero estendersi per oltre sei miglia in acque federali. “Una fuoriuscita di petrolio qui comporterebbe un danno incredibile, e sarebbe impossibile ripulire” ha commentato Monsell.
“Questa è una decisione piuttosto inaspettatamente” commenta Greenpeace Usa aggiungendo che “non c’è niente di premuroso o responsabile nell’incoraggiare le aziende a trivellare per più petrolio cosa che sta causando lo scioglimento dell’Artico e in condizioni così remote e insidiose. Tra l’altro è improbabile che questo nuovo pozzo possa produrre petrolio a stretto giro”.
Garantire il dominio americano dell’energia perforando petrolio nell’Artico – aggiunge l’associazione ambientalista – ha le stesse probabilità di successo di quell’uomo che ha imparato a progettare un razzo e sta progettando di sparare nello spazio per dimostrare che la Terra è piatta.
Le operazioni nel mare di Beaufort sono infatti piuttosto ardite: Eni ha intenzione di perforare il fondale dall’isola utilizzando pozzi lunghi più di 10 km. Si tratta di attività estremamente costose e potenzialmente irreparabili. Le acque gelide e le profondità a cui l’azienda intende spingersi, infatti, rendono qualunque disastro difficile da gestire.
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Eni è rimasta da sola ad andare avanti sul progetto dopo che la Shell ha abbandonato la sua missione esplorativa al largo dell’Alaska nel 2015 quando una nave noleggiata aveva subito uno squarcio in acque per lo più inesplorate e gli ambientalisti avevano scoperto una legge esistente che limitava la capacità dell’azienda di perforare.