
Nel nuovo rapporto “Gli ingredienti del caporalato”, l’associazione Terra! racconta come le intermediazioni criminali si siano evolute grazie alle cooperative di servizi e alla collusione delle aziende. E non mancano le difese d’ufficio
Il caporalato è sempre più presente anche nelle regioni del Nord Italia, fino a poco tempo fa considerate “al riparo” da fenomeni di sfruttamento pesante nelle campagne. A raccontarlo è anche “Gli ingredienti del caporalato: il caso del Nord Italia”, il nuovo report dell’associazione Terra! Il report segue quello del 2023 in cui raccontava come il caporalato esistesse anche nelle filiere più ricche, come il melone a Mantova e l’industria delle insalate in busta nel bergamasco. L’associazione questa volta si è spinta in Piemonte, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, dove ha analizzato le condizioni di lavoro nella produzione del vino e della frutta e, di nuovo, in Lombardia.
Il report
Il report mette in risalto analogie e contrasti tra le regioni e individua alcuni elementi su cui chiama in causa la politica, “gli ingredienti del caporalato” appunto. “Questi ingredienti si combinano in modi diversi a seconda del contesto – commenta Fabio Ciconte, presidente dell’Associazione Terra! – ma sono tutti accomunati da uno squilibrio di potere a favore della parte apicale della filiera e da una scarsa attenzione al rispetto dei diritti dei lavoratori. Dopo tante denunce, è tempo che la politica si assuma la responsabilità di debellare questo fenomeno”.
I nuovi soggetti intermediari
E tra questi ingredienti, c’è la presenza di nuovi soggetti intermediari. Non c’è più ormai (o non solo) il caporale che recluta braccianti lungo la strada: il sistema è ben collaudato e vede il protagonismo delle cosiddette “cooperative senza terra”, di partite Iva e di Srl, Srls, che garantiscono grande flessibilità alle aziende, riducendo però le tutele per i lavoratori. Soggetti intermediari, spiega il report, che prendono in appalto determinate lavorazioni specie nei periodi di picco stagionale, operano al di fuori della legge, utilizzando normali codici Ateco per camuffare le reali attività. In quasi tutte le regioni esistono due modi. L’azienda versa alla cooperativa il corrispettivo previsto dal contratto provinciale al bracciante, ma la cooperativa trattiene una parte e sottopaga il lavoratore. Oppure c’è connivenza da parte dell’azienda agricola, che paga il lavoratore meno di quello che prevede il contratto. Individuare questi soggetti è la parte più difficile, secondo le testimonianze raccolte da Terra!: spesso, infatti, utilizzano indirizzi fittizi e si muovono tra regioni confinanti, facendo perdere velocemente le proprie tracce. “Oggi è difficile riscontrare contratti di appalto che siano marci a prima vista” conferma l’Ispettorato del lavoro di Cuneo nel rapporto.
Come cambia il bacino di manodopera
Diminuiscono i lavoratori comunitari, spinti da prospettive migliori in altri paesi, e aumentano quelli provenienti dall’Africa subsahariana e dall’Asia meridionale, che non dispongono di una rete sociale consolidata né di un’abitazione, quindi risultano più ricattabili. È questo il caso delle Langhe del Moscato, del Barolo e del Barbaresco, ma anche del Veneto del Prosecco e del Friuli delle barbatelle. Lo scarso margine di guadagno della parte agricola è uno dei temi centrali del rapporto e un altro punto su cui l’associazione invita la politica a lavorare: “Il problema è che decide tutto la Gdo quindi sono obbligato a vendere al di sotto del prezzo di produzione. Il mio ricavo è zero” dichiara un produttore piemontese intervistato nel report. E così il peso finale grava sempre sul lavoratore.
Gli attacchi e la retorica delle mele marce
“Recuperando la retorica delle ‘poche mele marce’, ci accusano di avere gravemente offeso il comparto agricolo, di fare ‘di tutta l’erba un fascio’ e di colpire le aziende agricole”. L’associazione a partire da alcune critiche ricevute da Confagricoltura Mantova, commenta: “Parole che non ci sorprendono, perché rappresentano l’estremo tentativo di difendere l’indifendibile e cioè il fatto che nell’agricoltura italiana, anche in quella lombarda, anche in quella mantovana, esista lo sfruttamento di lavoratrici e lavoratori. Una realtà che abbiamo trovato ovunque abbiamo indagato: al Sud, nel Mediterraneo europeo, ma anche nelle ricche filiere lombarde del melone, della IV gamma e dei suini, dove i dati delle ispezioni delle forze dell’ordine e dei centri di ricerca nazionali ci danno ragione. Ma se questa realtà non viene accettata anche dopo i fatti tragici che hanno contrassegnato la scorsa estate, è un problema per tutti. Perché la conseguenza di tutto questo è l’immobilismo: perseverare nel vecchio modello senza cambiare mai”.
Le imprese che denunciano
E in Lombardia, continua Terra!, “accanto a molta imprenditoria che nega l’esistenza dello sfruttamento agricolo, abbiamo trovato anche imprese che lo denunciano e che vogliono combatterlo, proprio come noi. Quando abbiamo denunciato le critiche condizioni delle campagne in questa regione, non ci siamo mai riferiti alla totalità delle aziende agricole. Tuttavia i numeri di inchieste che riguardano la Lombardia e alcune province, tra cui Mantova, deve muovere le istituzioni a trovare delle soluzioni. E noi di soluzioni abbiamo parlato eccome, mettendo in rilievo le (poche) best practice che sono partite da questi territori”.