Cnr: le bioplastiche si degradano lentamente come le plastiche tradizionali

BIOPLASTICHE

Lo studio del Cnr: se non correttamente smaltite le bioplastiche in mare hanno tempi di degradazione come quelle che non derivano da materiale vegetale. La replica di Assobioplastiche: “Risultati frettolosi e parziali”

Le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto lunghi, comparabili a quelli di materiali plastici non bio. A questa conclusione è giunto uno studio del Cnr, il Consiglio nazionale delle ricerche, che ha coinvolto con l’Istituto dei processi chimico-fisici (Cnr-Ipcf) e l’Istituto di scienze marine (Cnr-Ismar), Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e Distretto ligure per le tecnologie marine (Dltm), con il supporto di Polizia di Stato – Centro Nautico e Sommozzatori La Spezia (CNeS).

Uno studio però contestato da Assobioplastiche, l’associazione che rappresenta le imprese di polimeri biodegradabili e di prodotti finiti e quelle impegnate nella gestione del fine vita dei manufatti realizzati con bioplastiche: “I risultati sono parziali perché lo studio si concluderà in tre anni e i risultati rischiano di essere strumentali in momento in cui si sta discutendo di una possibile via italiana al recepimento della Direttiva europea sulle plastiche monouso“.

In realtà lo studio italiano arriva pochi giorni dopo dell’analoga ricerca condotta in Spagna che è arrivata alle stesse conclusioni: la bioplastica in mane non si degrada velocemente.

Bioplastiche: lo studio del Cnr

Partiamo dallo studio pubblicato sulla rivista open access Polymers: sono stati, si legge in una nota del Cnr, comparati due polimeri “tra i più impiegati negli oggetti di plastica, HDPE e PP, e due polimeri di plastica biodegradabile, PLA e PBAT, verificandone il grado di invecchiamento e degradazione rispettivamente in acqua di mare e sabbia: in entrambi gli ambienti, nell’arco di sei mesi di osservazione, né i polimeri tradizionali né quelli bio hanno mostrato una degradazione significativa. L’osservazione dei campioni, unitamente all’esito di analisi chimiche, spettroscopiche e termiche condotte presso il laboratorio pisano del Cnr-Ipfc, coordinato dalla ricercatrice Simona Bronco, mostra che nell’ambiente naturale le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto più lunghi rispetto a quelli che si verificano in condizioni di compostaggio industriale”.

Data l’altissima diffusione di questi materiali, è importante essere consapevoli dei rischi ambientali che l’utilizzo della bioplastica pone, se dispersa o non opportunamente conferita per lo smaltimento: è necessario informare correttamente”, spiega la ricercatrice Silvia Merlino del Cnr-Ismar di Lerici (La Spezia), coordinatrice del progetto.

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“Questo studio mette in luce l’importanza di una corretta informazione riguardo alla plastica biodegradabile, soprattutto dopo lo stop alla plastica usa e getta in vigore in Italia dal gennaio 2021 in attuazione della direttiva europea ‘Single use plastic’, che ha portato alla progressiva commercializzazione di prodotti monouso in plastica biodegradabile, come i polimeri presi in esame”, aggiunge Marina Locritani, ricercatrice dell’Ingv e co-coordinatrice dello studio.

La relica di Assobioplastiche: studio incompleto e strumentale

A stretto giro Assobioplastiche ha replicato al Cnr in una nota attribuisce un “significato strumentale all’operazione“e rileva tre singolarità:La prima singolarità è che i “risultati” dello studio vengono diffusi frettolosamente e prematuramente, ossia sulla base del primo campionamento, effettuato dopo soli sei mesi in un esperimento che dura tre anni. Si tratta, in buona sostanza, di risultati preliminari“.

La seconda cosa che stigmatizza l’associazione è che “pur trattandosi di uno studio sui tempi di degradazione questi tempi non vengono effettivamente misurati. L’articolo non risponde infatti alla domanda “Quali tempi di degradazione hanno le bioplastiche rispetto a quelle convenzionali?”. Più specificamente, nello
schema sperimentale della prova manca un elemento fondamentale per contestualizzare i risultati e dare un senso al termine “significativo” riferito
a degradazione, “lungo” riferito a tempo e via dicendo: si tratta del pellet di
materiale lignocellulosico, ossia un composito polimerico naturale che è
necessario, come il metronomo con la musica, per dare significato alla
durata, per calibrare l’esperimento e capire cosa significa “veloce” e “lento”
in natura, al di là delle aspettative soggettive degli sperimentatori”.

Infine Assobioplastiche contesta che si parla di rischi ambientali che l’utilizzo della bioplastica pone, se dispersa o non opportunamente conferita per lo
smaltimento ma l’articolo pubblicato in Polymers non affronta in nessun
modo il tema della valutazione del rischio“.