Mentre in Italia industriali della carne e agricoltori si schierano contro la carne coltivata, chiamandola “fake meat”, i Big delle proteine animali investono e fanno acquisti di società più piccole, ingolosite da un mercato di miliardi di dollari. Replicando però gli stessi disastri che hanno prodotto con gli allevamenti intensivi
Se siete appassionati del tema, soprattutto leggendo le cronache italiane vi sarete fatti l’idea di una battaglia senza esclusione di colpi tra chi sta sviluppando le alternative alla carne che considera le proteine sostenibili per il futuro e la grande industria delle proteine animali che non a caso la definisce sprezzantemente “fake meat”, carne finta. Da noi l’opposizione più accesa viene da Filiera Italia, l’associazione tra industriali e agricoltori che vede tra i promotori Coldiretti insieme a Ferrero, Inalca/Cremonini e Consorzio Casalasco ed è schierata “contro le multinazionali del cibo sintetico”.
Fuori dai nostri confini, però, le cose non sono così semplici o, se volete, la contrapposizione non esiste. Al contrario, come dimostrano due recenti rapporti, le multinazionali della carne (vera) stanno facendo grandissimi investimenti nelle alternative, tanto che non è azzardato ipotizzare che stiano prendendo il controllo di questo mercato, cacciando le realtà pià piccole (o incorporandole).
Carne coltivata o sintetica: la grande scommessa
Aziende come la JBS e la Cargill – veri e propri colossi nella ristretta famiglia di quella che definiremmo Big Food – hanno investito milioni in proteine vegetali e carni coltivate in laboratorio negli ultimi anni e hanno rilevato diverse società più piccole. È quanto testimoniano due rapporti, uno di marzo di IPES-Food, una coalizione di esperti di sistemi alimentari e uno di questi giorni dell’organizzazione no profit Food & Water Watch.
La scommessa, del resto, è decisamente alettante: un mercato che nel 2020 era stimato in 4,2 miliardi di dollari di vendite dovrebbe arrivare nel giro di 5 anni a 28 miliardi di dollari. E nel quale la parte da gigante attualmente la fa Kellogg con circa il 46% del mercato della carne da laboratorio.
E non è solo il pubblico di vegetariani e vegani a essere quello di destinazione della carne a base vegetale o di quella coltivata in laboratorio, ci sono i consumatori che vorrebbero alternare alle proteine animali quelle a basso impatto ecologico, con un’impronta di carbonio che, secondo i dati della Johns Hopkins University, è mediamente del 93% inferiore rispetto alla carne bovina.
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Per Hanna Tuomisto, ricercatrice dell’Università di Helsinki ed esperta che per il Joint research center (Jrc) – il Centro comune di ricerca, una delle direzioni generali della Commissione europea – si è maggiormente occupata di cultured meat (letteralmente: carne coltivata), nell’ottica di contrasto ai cambiamenti climatici e di risparmio delle risorse, oltre che di necessità di sfamare una popolazione in crescita, la carne sintetica può essere una risposta.
Gli affari sono affari
Logico che i big non si tirino indietro da un giro di affari così promettente. E non si pensi solo a Bill Gates che pure è uno dei più grandi investitori di Memphis Meats, una delle compagnie più grandi nelle alternative alla carne.
La stessa Cargill, grande produttore di sementi, soia, mangimi e, per l’appunto di carne, ha investito nell’azienda di carne coltivata in laboratorio Aleph Farms.
Tyson Foods, altra multinazionale Usa e secondo produttore e produttore di carne di pollo, manzo e maiale al mondo, vende carni a base vegetale con il suo marchio Raised & Rooted e ha investito in diverse aziende di questo settore.
JBS, la più grande azienda di carne del mondo che ha nel portafogli anche aziende italiane del calibro di Rigamonti, Kings e Principe, l’anno scorso ha acquistato l’azienda di carne coltivata in laboratorio BioTech Foods e anche l’azienda di carne vegetale olandese Vivera, che ha lo slogan aziendale: “La vita è migliore quando si mangia meno carne”.
Nel rapporto IPES-Food vengono al pettine i nodi di questa massiccia concentrazione di produzione che in nome della riduzione della dipendenza dagli animali replica alcuni dei problemi dell’industria della carne tradizionale, compresi le monocolture prodotte in maniera intensiva e i metodi che consumano energia.