In tempi in cui c’è sempre più fastidio per chi fa giornalismo di inchiesta sull’agroalimentare italiano, c’è chi chiede che i giornali non escano o che le trasmissioni vengano soppresse. Una voglia di evitare l’informazione scomoda che riporta indietro negli anni
La tempesta, anche questa volta, si è scatenata ben prima della pubblicazione del giornale che è andato in edicola da pochi giorni. A farla esplodere – singolare e beffarda coincidenza: proprio il 3 maggio, nella giornata internazionale per la libertà della stampa – è stato il Codacons di Carlo Rienzi che, esattamente come nel maggio 2021, “informato” della prossima uscita del test sugli oli extravergine del Salvagente ha chiesto all’Antitrust di inibire l’uscita del giornale. Una censura preventiva che potremmo liquidare con la facile battuta: probabilmente ha scambiato l’olio di oliva con quello di ricino, tanto appare chiaro il riferimento a una censura preventiva della stampa che ricordiamo solo nel ventennio fascista. Vale la pena fermarsi però tra quanto è all’interno delle virgolette: chi ha informato il Codacons?
Nessun mistero, nessuna spy story: il Salvagente aveva – come fa sempre – inviato i risultati delle analisi alle aziende e c’è chi ha ritenuto di comunicarle al Codacons, evidentemente percependolo come un valido alleato. In molti si sono meravigliati in questi giorni del fatto che un’associazione che nello statuto ha la difesa dei consumatori si preoccupasse di tutelare il mercato più che i clienti. Lo ha fatto pubblicamente il segretario della Fnsi, il sindacato unitario dei giornalisti italiani, Vittorio Di Trapani.
Noi, visti i trascorsi delle lunghe querelle sull’olio dell’associazione di Carlo Rienzi e dei legami (di sangue) di una sua associata con gli ex vertici della Coricelli, ci meravigliamo molto meno, ma tant’è.
Come è evidente né l’Antitrust né il Codacons hanno impedito l’uscita di questo numero.
Entrambi potranno leggere attentamente i risultati del terzo test che in 8 anni il Salvagente dedica all’olio, che pure hanno già prodotto molta agitazione anche nel mondo industriale. E non è un caso: se ancora una volta una parte importante delle bottiglie che un consumatore si trova ad acquistare sugli scaffali dei supermercati si può rivelare come tutt’altro che l’extravergine per legge definito senza difetti, il problema c’è.
Questa “roulette russa” non può tranquillizzare nessuno, né chi paga per un prodotto che non è tale alla prova dei fatti, né per chi lo ha prodotto e imbottigliato, né per chi lo espone sugli scaffali e lo vende.
Nelle pagine curate da Enrico Cinotti, abbiamo dato spazio a molte delle osservazioni che sono arrivate dai produttori. In comune c’è la loro certezza di aver messo in bottiglia un extravergine. Non sarebbe, dunque, responsabilità loro se l’olio è cambiato. Anche perché, come ci hanno scritto alcuni, l’extravergine è un prodotto vivo e tra raccolta e scadenza possono passare anche più di due anni.
Facciamo solo due considerazioni che crediamo meritino una soluzione: la prima è che la legge (come è ovvio) stabilisce che un prodotto debba mantenere le sue caratteristiche minime fino a scadenza. Se così non può accadere è inevitabile che si ripensi alla vita del prodotto.
L’altra evidenza, a nostro giudizio ancor più significativa, è che se dopo 8 anni e 3 test ancora una buona metà delle bottiglie di extravergine che facciamo analizzare non risulta tale, è arrivato il momento di offrire qualche garanzia seria ai tanti appassionati consumatori dell’olio. A poco serve lo scaricabarile tra industrie e supermercati e men che meno la tentazione (anche in questo caso irresistibile per alcuni) di portare in tribunale o in sedi inappropriate come l’Antitrust un giornale che racconta quello che vede.
Questo ci aspetteremmo da un’industria che dice di aver preso sul serio lo scandalo della prima inchiesta del 2015 del Salvagente. Che denunciava un problema oggettivamente tutt’altro che risolto.