Altro che inerti, le microplastiche danneggiano il Dna. Lo studio Enea-Cnr

microplastiche

Un nuovo studio di Enea-Cnr dimostra come le microplastiche si trasferiscano dall’acqua dolce alle radici delle piante acquatiche e ai crostacei che se ne cibano e che subiscono danni al Dna. Con un potenziale pericolo anche per noi

Un nuovo studio di Enea-Cnr dimostra come le microplastiche si trasferiscano dall’acqua dolce alle radici delle piante acquatiche e ai crostacei che se ne cibano e che subiscono danni al Dna, fino ad arrivare sulle nostre tavole. Il team di ricercatori di Enea e dell’Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri del Cnr coordinati da Massimo Zacchini ha valutato in laboratorio gli effetti di microparticelle di polietilene (Pe), tra le più comuni materie plastiche disperse nell’ambiente, su organismi d’acqua dolce, vegetali e animali.

Lo studio

Lo studio, pubblicato sulla rivista internazionale Water, si è basato sulle specie “Spirodela polyrhiza”, la cosiddetta lenticchia d’acqua, una piccola pianta acquatica galleggiante, e “l’Echinogammarus veneris”, un crostaceo d’acqua dolce simile a un gamberetto, di cui si nutrono comunemente alcuni tipi di pesce, come le trote.

“Le piantine – spiega il periodico online dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, Eneainform@ – sono state immerse in acqua contaminata da microplastiche di circa 50 micrometri – più piccole del diametro di un capello – e dopo 24 ore trasferite nella vasca dei gamberetti”. I risultati hanno dimostrato che le piante, durante l’esposizione, oltre a una lieve riduzione del contenuto di clorofilla, hanno accumulato un elevato quantitativo di microplastiche sulle radici di cui i crostacei si cibano, ingerendo in media circa 8 particelle per esemplare.

Come le microplastiche entrano nella catena alimentare

Inoltre, lo studio ha dimostrato che questi minuscoli frammenti di plastica, una volta ingeriti dai crostacei, vengano sminuzzati e restituiti all’ambiente sotto forma di escrementi, che possono rientrare nella catena alimentare, cosiddetta “del detrito”, in maniera potenzialmente più pericolosa di quella di partenza.

Il ruolo delle piantine

“Questo studio mostra chiaramente, all’interno di un sistema controllato di laboratorio, i meccanismi attraverso i quali le microplastiche entrano e si trasferiscono all’interno della catena alimentare”, sottolinea Valentina Iannilli, ricercatrice Enea del Laboratorio Biodiversità e servizi ecosistemici. “Le piantine, infatti, hanno avuto il ruolo di ‘raccogliere’ e ‘trasferire’ queste particelle ai crostacei, fonte di cibo per i pesci che a loro volta accumulano microplastiche anche nei muscoli, che sono poi le parti che noi mangiamo”.

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Come incide nel Dna dei crostacei

Infine, sono stati valutati gli effetti diretti delle microplastiche sul Dna dei crostacei, per comprendere se queste particelle potessero indurre anche genotossicità, ovvero danni a livello del materiale genetico. “Dopo solo 24 ore, è stato possibile osservare come gli individui ‘trattati’ con le microplastiche presentino un livello di frammentazione del Dna significativamente superiore rispetto a quelli non trattati, dimostrando come queste particelle siano effettivamente in grado di indurre un danno al Dna nelle cellule degli organismi studiati” scrive il periodico dell’Enea.

“Le microplastiche non sono materiale inerte”

“Questo significa che le microplastiche non sono, come spesso è riportato, materiale inerte che non interagisce con le funzioni degli organismi, ma che, invece, si ‘muovono’ lungo la catena alimentare con effetti diretti anche sull’integrità del patrimonio genetico e di conseguenza potenziali a lungo termine su popolazioni, comunità e interi ecosistemi”, aggiunge Valentina Iannilli. “Un risultato – conclude – che deve far riflettere sulla pericolosità del rilascio nell’ambiente di queste particelle microscopiche derivate dalle attività antropiche, anche in considerazione della loro diffusione in tutte le matrici ambientali quali acqua, suolo, aria, ghiacci dell’Artico fino ai sistemi agricoli”.

Che la diffusione sia oramai ubiquitaria lo hanno dimostrato moltissimi studi, non ultimo quello del Salvagente sui soft drink.