Glutammato monosodico e l’inganno del gusto umami: il parere degli esperti

glutammato monosodico

Il glutammato monosodico fa male? Il problema va bene oltre la salute. Il punto è che non siamo più abituati ai sapori naturali…

Quando parliamo di glutammato monosodico il pensiero non può che andare al gusto umami, il quinto sapore che pochi riescono a definire con precisione, ma che ha invaso ormai i nostri ristoranti e le cucine. È il gusto che completa il classico quartetto cui siamo stati abituati: dolce, salato, acido, amaro.

Da quando i sapori orientali hanno invaso i profumi del mediterraneo, il gusto umami è entrato nelle nostre abitudini alimentari. Il costume è cambiato radicalmente: molte trattorie locali hanno lasciato posto a sashimi e lanterne rosse, locali cinesi e all you can eat dove paghi poco ma puoi mangiare in quantità esagerate. Ed è quel tanto che fa pensare.

Che relazione c’è tra il glutammato il gusto umami?

Il glutammato monosodico è il sale di sodio dell’acido glutammico, uno dei 23 amminoacidi naturali che costituiscono le proteine e uno degli amminoacidi più abbondanti in natura. È possibile trovare il glutammato monosodico in molti alimenti tra cui latte, pomodori, funghi e alcune alghe usate nella cucina giapponese. Il parmigiano è il cibo che ne contiene di più: 1,2 grammi ogni 100 di prodotto.

Il glutammato monosodico, che è l’ingrediente principale dei dadi da brodo e dei preparati granulari per brodo, trova uso nell’industria alimentare come additivo ed è identificato dalla sigla E621. Detto in parole semplici: il glutammato monosodico è un insaporitore diffuso in molte preparazioni industriali.

È largamente utilizzato come additivo esaltatore di sapidità anche nella cucina cinese e orientale Perciò, nella tradizione alimentare del Sud-est asiatico il glutammato è molto più utilizzato rispetto alla tradizione culinaria occidentale e mediterranea. Per questo, prima della diffusione di ristoranti cinesi e giapponesi non ne avvertivamo la presenza, anche se di fatto era già presente.

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È molto diffuso, ma non ci sono studi chiari che ne regolamentino l’utilizzo. Ed è proprio questa fase di incertezza che desta maggiori preoccupazioni sulla salute alimentare dell’uomo.

Come si può definire il gusto umami?

Nel 1982, al fine di diffondere informazioni sull’umami a livello globale, è stato fondato l’Umami Information Center con il supporto dell’Umami Manifacturers Association of Japan. È lo stesso centro a restituirci una chiara definizione del “quinto elemento”. L’umami è

“un gusto sapido piacevole che viene dal glutammato e da diversi ribonucleotidi, tra cui inosinato e guanilato, che si trovano naturalmente in carne, pesce, verdura e prodotti lattiero caseari”.

“In termini scientifici, umami è definito come il sapore dei sali che combinano glutammato, inosinato o guanilato con ioni del calibro di sodio, come glutammato monosodico o ioni potassio. Descriviamo l’umami come il gusto del glutammato, dell’inosinato e del guanilato. Anche i sali dell’amminoacido aspartato e del nucleotide adenilato sono tipi di sostanza umami, più deboli del glutammato. Anche l’acido succinico, che conferisce ai crostacei il loro gusto caratteristico, è stato identificato come un’altra possibile sostanza umami”.

Poiché la parola “umami” è originariamente giapponese e le espressioni giapponesi “avere umami” e “umai” possono significare “gusto” o “delizia“, ​​”umami” è spesso confuso con “delizia”. Che abbia un buon sapore o meno è una valutazione completa ma soggettiva determinata da elementi come gusto, aroma, consistenza e temperatura, oltre ad altri fattori come l’aspetto, il colore e la forma, nonché la propria condizione fisica, l’ambiente circostante, il background culturale e precedenti esperienze. Di questi vari elementi, l’umami in equilibrio con gli altri gusti di base (dolce, acido, salato e amaro) gioca un ruolo importante nel determinare la prelibatezza di un piatto.

Come e chi ha scoperto il gusto umami e il glutammato?

Il glutammato monosodico fu scoperto nel 1908 da Kikunae Ikeda, professore presso il Dipartimento di Chimica della School of Science presso l’Università Imperiale (ora chiamata Università di Tokyo).

La scoperta dell’umami da parte di Ikeda fu inizialmente ispirata nella primavera del 1907 da un fascio di alghe portato a casa da sua moglie, Tei, destinato a essere utilizzato nella preparazione del brodo dashi, un ingrediente centrale nella cucina giapponese.

Dopo aver assaggiato le alghe, l’esperto nipponico notò la somiglianza rispetto al gusto unico dei pomodori, degli asparagi, della carne e del formaggio che aveva mangiato durante il suo viaggio in Germania. Questo “retrogusto” era inconfondibilmente presente anche nel dashi delle alghe portate da sua moglie.

Sulla base di questa consapevolezza, iniziò a ricercare i costituenti presenti nelle alghe. Sin dai tempi antichi, le credenze comuni sostenevano che esistessero quattro gusti di base – dolcezza, salsedine, acidità e amarezza – e che qualsiasi altro gusto incontrato fosse il risultato della combinazione di questi quattro. Tuttavia, Ikeda scoprì che il gusto che incontrava nel dashi era diverso da quello di uno qualsiasi dei quattro stabiliti ed era sicuro di aver scoperto un quinto gusto di base.

A quel punto utilizzò le strutture del laboratorio presso la School of Science dell’ormai ribattezzata Tokyo Imperial University per condurre esperimenti volti all’estrazione del fattore umami dalle alghe, attraverso i quali scoprì che l’acido glutammico era un elemento centrale nel gusto del dashi.

Ikeda proseguì la commercializzazione dell’acido glutammico dell’elemento umami primario sotto forma di un condimento umami. Grazie alla sua scoperta e alla commercializzazione di un condimento umami, lo scienziato pensò di poter così risolvere il problema dell’alimentazione insufficiente tra i giapponesi.

Ma non è tutto. Ikeda portò avanti esperimenti volti a neutralizzare l’acido glutammico. L’indebolimento della sua acidità provocò un sapore aspro, quindi vi aggiunse bicarbonato di sodio per neutralizzarlo, ottenendo un pronunciato aumento del livello di umami. Ikeda ha provato glutammato di potassio, glutammato di calcio e altre combinazioni, ma il glutammato di sodio si rivelò il più facilmente solubile in acqua, fornendo il miglior sapore risultante. Concluse che la creazione di un glutammato di sodio dal concentrato di sodio fosse ottimale. Nell’aprile 1908 ottenne il brevetto della coperta.

Il problema delle quantità di glutammato di sodio

Dunque, parlavamo di quantità. Nel recente passato, persino un esperto cauto come il professor Enzo Spisni, fisiologo della nutrizione dell’Università di Bologna, ha espresso molte perplessità in merito ai quantitativi impiegati e consumati. Egli, come tanti nutrizionisti e professionisti, sostiene che l’abitudine all’alta sapidità sia sbagliata e dannosa. “Oltre a camuffare i cibi di bassa qualità – osserva Spisni – questa sostanza cela un rischio reale, da non sottovalutare. Il glutammato ci abitua a un livello di sapidità molto alto, e quando gli alimenti non contengono la sostanza si può essere portati ad aggiungere sale”.

Insomma, si innesca un cortocircuito potenzialmente nocivo. In una intervista rilasciata anni fa ha dichiarato che “l’abitudine di utilizzare il glutammato è sbagliata, non tanto per i danni diretti, ma in particolare per i danni indiretti”.

Sapori ingannevoli: il problema degli All you can eat e dei ristoranti di bassa qualità

Consumare alimenti molto saporiti è una insana abitudine. I cibi possiedono i loro sapori, che per natura non sono così accentuati e a volte possono anche essere molto delicati, e richiedono “educazione” ed esercizio per essere scoperti. Siamo abituati a una pessima abitudine.

Spisni fa notare:

“Nei ristoranti cinesi di basso livello, dove in genere il glutammato è molto utilizzato, c’è un sostanziale appiattimento sensoriale”.

L’acido glutammico è un aminoacido, unità costitutiva delle proteine, prodotto naturalmente nell’organismo umano e presente in forma libera (non legata) in alcuni alimenti come ad esempio i pomodori, la salsa di soia e alcuni formaggi. L’acido glutammico e i suoi sali (E 620-625), comunemente indicati come glutammati, sono additivi alimentari autorizzati e aggiunti a una vasta gamma di alimenti per “manipolare” il gusto conferendo agli stessi cibi un sapore “salato” o “di carne”.

Il problema è la quantità

L’Efsa (European food safety authority) è la massima autorità europea per la sicurezza alimentare. Si è occupata della questione sicurezza nell’assunzione di acido glutammico e glutammati impiegati come additivi alimentari, senza tuttavia riuscire a mettere un punto fermo sulla questione. Dopo aver rassicurato la popolazione, sono stati gli stessi esperti Efsa a raccomandare un riesame dei livelli massimi consentiti per questi additivi alimentari.

Dopo il riesame, l’Efsa ha quantificato una dose giornaliera ammissibile (DGA) di 30 milligrammi per ogni chilogrammo di peso corporeo per tutti i sei additivi compresi tra le sigle E 620 e E 625

Attualmente nell’Ue non esiste uno specifico livello numerico di sicurezza (ADI) per l’assunzione di acido glutammico e glutammati utilizzati come additivi alimentari.

Nell’Unione europea l’aggiunta di glutammati è generalmente consentita fino a un livello massimo di 10 grammi per ogni chilogrammo di alimento. Nei sostituti del sale, negli insaporitori e nei condimenti non esiste un quantitativo numerico massimo consentito per i glutammati, che devono essere utilizzati conformemente alle buone pratiche di fabbricazione. Questa incertezza crea ulteriore confusione e anarchia, che non dà sicurezza ai consumatori.

L’abuso degli esaltatori per manipolare la bassa qualità dei cibi

La comunità scientifica è divisa. Il professor Alberto Ritieni è ordinario di Chimica degli Alimenti presso il Dipartimento di Farmacia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. È stato membro del Comitato Tecnico per la Nutrizione e la Sanità Animale per la Sezione Dietetica e Nutrizione, nominato dal Ministero della salute.

Più recentemente, l’esperto ha analizzato la questione in questo articolo de Il Salvagente, sostenendo la tesi secondo cui la famiglia degli esaltatori di sapidità compresa tra le sigle E620-E625 andrebbe regolamentata “perché se ne lasciassimo libero l’uso, avremmo un abuso che potrebbe comportare il superamento della DGA previsto dall’Efsa”.

E dunque, torniamo al concetto di quantità, espresso in apertura. “L’abuso – osserva Ritieni – sarebbe legato al ruolo di “make up” (manipolazione, ndr) che gli esaltatori di sapidità possono svolgere, ovvero di coprire i problemi delle materie prime non eccellenti. Un esempio che in parte è simile ed è rappresentato dal sale da cucina: i cuochi poco esperti se devono “mascherare” qualche peccatuccio del piatto, tendono a salare così da confondere il nostro gusto che non percepisce bene la scarsa qualità del piatto e applaude il cuoco. Gli esaltatori di sapidità, in alcune preparazioni, amplificano la poca qualità portandola a sembrare eccellente alla stregua di un ottimo impianto di amplificazione che fa somigliare anche un modesto tenore poco virtuoso a un grande Pavarotti”.

Il problema non è la conformità, ma la qualità del cibo “truccato”

Come possiamo allora fidarci degli organismi sovraordinati? Il professor Ritieni va oltre la questione: “È scontato che i livelli di questi additivi siano sempre nella norma dell’Ue, per cui non si parla di prodotti non conformi, ma dobbiamo riflettere se è necessario introdurne quotidianamente tanti. Siamo certamente protetti se consumiamo prodotti conformi, ma chiediamoci quale è la qualità delle materie prime se è tale da richiedere un “aiutino” organolettico rendendo questi modesti tenori più simili a grandi cantanti senza che ne abbiano il talento?”.

La coscienza critica dei consumatori

Occorre dunque una coscienza più critica del consumatore, che vada oltre delle regole e delle norme che peraltro cambiano nel corso del tempo, grazie proprio all’altra voce critica, quella degli esperti. E ci sono dei segnali positivi. Infatti, il 55% dei consumatori tende a non acquistare un alimento se presenta additivi come il glutammato monosodico (E621), l’aspartame (E951) e la lecitina (E322). E più in generale, coloranti e dolcificanti. Sono questi i dati di un sondaggio condotto in Germania dal Bfr, l’Istituto federale tedesco per la valutazione dei rischi, e che ha coinvolto 1.015 consumatori.

Tenere in allenamento le papille gustative, senza trucco e senza inganno

Oltre alla coscienza e alla spesa critica, dovremmo però abituarci a tenere in allenamento le papille gustative. Ci siamo impigriti. Siamo indolenti ma anche “manipolati” dall’impiego eccessivo degli insaporitori.

Dello stesso avviso è il professor Franco Berrino, direttore del Dipartimento di Medicina Preventiva e Predittiva dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Uno dei segreti? “Masticare lentamente durante il consumo dei pasti”, sostiene Berrino.

Masticare a lungo è essenziale non solo per riscoprire lo spettro dei gusti, cogliendone le sfumature. Ma anche perché è l’unico modo per dare il tempo all’apparato digerente di segnalare al cervello che il cibo è arrivato e che non è più il caso di mandare segnali di fame. Dunque, masticando lentamente possiamo mangiare bene, con gusto e senza ingrassare.

In fondo, la tavola dovrebbe essere una esperienza da vivere appieno, boccone dopo boccone, come un viaggio o un momento da associare al tempo libero, stando rilassati, mettendo in pausa, almeno in quel momento, il vortice della frenesia quotidiana. Gli additivi e gli insaporitori accelerano questa esperienza, distogliendoci dall’essenza vera del gusto. L’obiettivo di chi li impiega nella produzione alimentare è sempre solo uno: innescare dipendenza nel consumatore per massimizzare i profitti.