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“Las malas hierbas son buenas”. Paco Montabes si riferisce alle erbe infestanti, quelle che da anni si combattono con la chimica, glifosato soprattutto, e con intensi trattamenti del suolo in tutto il mondo, non esclusa, ovviamente, la sua Spagna. Lui coltiva 650 ettari di olive picual nella Sierra Mágina di Jaén con l’agricoltura rigenerativa. In una zona chiamata dagli spagnoli “El mar de olivos”, il mare degli ulivi, con le sue 70 milioni di piante che dominano completamente il paesaggio. Sotto gli ulivi e intorno ad essi, però, assai spesso non c’è nulla. “La terra è praticamente morta, quasi nessun fiore, uccello o farfalla da vedere” scrive Stephen Burgen, inviato del Guardian autore di un bel reportage da quella zona.
L’agricoltore iberico, però, ha adottato i metodi rigenerativi “senza aratro” che si sono diffusi negli uliveti e nei principali produttori di vino, aumentando la biodiversità e i profitti. Senza l’aratura tradizionale tra le viti, infatti, erbe e fiori di campo possono crescere e arricchire i suoli, aumentando la biodiversità.
Questi metodi si stanno diffondendo in Andalusia grazie al sostegno finanziario del progetto europeo Life che dal 2016 ha selezionato 20 aziende olivicole della regione per adottare un modello di agricoltura rigenerativa, consentendo all’erba e ai fiori selvatici di prosperare tra gli alberi. Sono state piantate varie specie locali, installati nidi e creati stagni per incoraggiare la vita di insetti e uccelli.
L’agricoltura rigenerativa? Funziona e fa guadagnare tutti
Nel più grande studio al mondo sulla biodiversità degli oliveti, i ricercatori dell’Università di Jaén e del Consiglio superiore per la ricerca scientifica (CSIC), partner del progetto Olivares Vivos, hanno scoperto che in tre anni la popolazione di api negli oliveti rigenerativi è aumentata del 47%, l’avifauna del 10% e gli arbusti legnosi del 172%, rispetto a 20 agriturismi di controllo. Mentre i conigli prosperavano nell’erba, sono riapparsi perfino gli uccelli rapaci.
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La cosa forse più interessante è che gli scienziati, come documenta il servizio di Burgen, hanno scoperto che gli erbicidi uccidevano quegli insetti che mangiano le larve della mosca dell’olivo (Bactrocera oleae), uno dei principali parassiti della coltura. Insomma, se impedivano alle infestanti di coprire il suolo, avevano come effetto collaterale di aumentare i parassiti dell’ultivo
“Quello che stiamo facendo è tornare a modi più tradizionali”, afferma al Guardian Paco Montabes, “Non arare tra gli alberi migliora la ritenzione idrica, riduce l’erosione e il ruscellamento dopo forti piogge. Il rivestimento vegetale rende il terreno spugnoso e assorbe la pioggia”.
L’iniziativa è stata motivata da preoccupazioni sia ambientali che economiche, afferma José Eugenio Gutiérrez, dell’organizzazione per la conservazione SEO Birdlife, il coordinatore del progetto. I coltivatori erano preoccupati per l’erosione del suolo e la mancanza di biodiversità, ma stavano anche soffrendo finanziariamente poiché un eccesso globale di olio d’oliva spingeva i prezzi al di sotto del costo di produzione. Una dinamica che tra l’altro fa soffrire la concorrenza su questo gioiello della dieta mediterranea anche la produzione italiana. Spesso gli unici a realizzare un profitto erano imbottigliatori e commercianti.
L’olio iberico prodotto grazie al progetto Olivares Vivos è certificato come prodotto in condizioni che aumentano la biodiversità, piuttosto che essere certificato semplicemente come “ecologico”, e questo costituisce un valore aggiunto.
Non solo, visto che gli agricoltori risparmiano su erbicidi e pesticidi, possono vendere il loro olio a un prezzo premium, senza rinunciare al loro legittimo guadagno.
Un successo che non è sfuggito ad altri agricoltori: Gutiérrez afferma al Guardian che sono più di 600 i coltivatori che hanno espresso interesse ad adottare il modello rigenerativo.
E anche il vino fa la sua parte
L’idea è già decollata nel mondo del vino. Alcuni vigneti più piccoli hanno adottato pratiche rigenerative, ma ora anche i maggiori produttori di vino si stanno iscrivendo. Nella regione vinicola del Penedès, 450 miglia (750 km) a nord di Jaén, Torres, il più grande produttore di vino della Spagna, sta abbracciando l’approccio rigenerativo mentre cerca modi per ridurre la propria impronta di carbonio.
“Sebbene fossimo certificati come viticoltura biologica nella maggior parte dei nostri vigneti, c’era la sensazione che non stessimo facendo abbastanza”, ha spiegato a Stephen Burgen Miguel Torres, capo dell’azienda. Tradizionalmente, la terra viene arata tra le viti per eliminare le erbacce e aprire il terreno alla pioggia. Tuttavia, oltre a contribuire all’erosione, questo porta a una mancanza di biodiversità e all’impoverimento del suolo, che ha quindi bisogno di nutrienti per essere reintegrato artificialmente.
“Le regole della viticoltura biologica non menzionano l’impronta di carbonio, quindi puoi usare un trattore quanto vuoi. Abbiamo pensato: ‘dobbiamo ridurre le nostre emissioni ma dobbiamo anche catturare la CO2’”, afferma Torres al Guardian.
E così l’azienda di Torres ha ridotto la sua impronta di carbonio del 34% a bottiglia e punta al 60%, principalmente attraverso misure di efficienza energetica introdotte durante il processo di vinificazione.
“Il nostro obiettivo è smettere di arare”, dice. “Quando ari porti il materiale organico in superficie e finisci per farlo ossidare, quindi tutto ciò che avevi immagazzinato va nell’atmosfera. Quello che cerchiamo di fare è imitare il più possibile la natura, il che significa che dobbiamo ridare vita alla terra”.