Gli additivi nascosti in un barattolo di verdure sottolio

Una conserva alimentare come dice il termine stesso nasce dall’esigenza di “conservare” in un periodo più o meno lungo un ortaggio, o un vegetale in genere, per poterlo consumare fuori stagione.
Per garantire la sicurezza igienico sanitaria del prodotto sono necessarie una serie di operazioni preliminari e degli importanti trattamenti di sterilizzazione al fine di evitare il proliferare di popolazioni microbiche e dei loro relativi metaboliti, sostanze molto pericolose, tra cui la più importante è la tossina botulinica.
Il solo trattamento termico ad alte temperature non garantisce la distruzione delle spore del batterio incriminato, il Clostridium botulinum, dalla cui attività viene prodotta la tossina botulinica. È necessario creare delle condizioni chimico-fisiche che inibiscano l’attività di tali spore, nello specifico è necessaria la presenza di un’acidità espressa come pH che sia inferiore a 4,5.
Nella pratica le materie prime destinate alla produzione di conserve devono essere trattate preventivamente con agenti acidificanti, come aceto o additivi alimentari correttori di acidità.
Data per scontata l’adozione delle corrette tecniche per garantire la sicurezza igienico sanitaria del prodotto, una questione molto importante, che impegna profondamente l’industria alimentare, è la qualità delle conserve, intesa come sapore e aspetto estetico.
Un matrice alimentare che subisce questi “obbligatori” trattamenti descritti, perde sapore e assume un aspetto molto diverso da quello che ha in natura. E l’industria deve assolutamente evitare che questo accada se non vuole che il barattolo che produce resti invenduto in negozio.
Partiamo dall’aspetto. Una conserva tipicamente condizionata in vasetti di vetro trasparente è soggetta all’ossidazione dovuta dall’incidenza della radiazione luminosa che viene dall’esterno. Si parla di prodotti che possono restare sullo scaffale e nei magazzini anche per 2 anni e più.
Per risolvere la questione si usano gli antiossidanti. In questa categoria di additivi quello più sicuro, e fortunatamente più diffuso, è l’acido ascorbico (E300), ma spesso capita di trovare qualche altra molecola un po’ meno salutare come ad esempio i gallati (E310) in prodotti come sughi di carne e minestre.
Una categoria di conserve degna di menzione in relazione all’aspetto estetico è quella di funghi, in particolare champignon.
I capitolati commerciali della grande distribuzione, in particolar modo all’estero, prevedono che il fungo in conserva appaia con il suo caratteristico colore bianco, che spesso si perde a causa dell’annerimento fisiologico della matrice alimentare. Per ovviare a tale inconveniente alcune aziende che ricevono la materia prima dai mercati asiatici (uno dei principali fornitori delle aziende europee) operano preliminarmente un ammollo dei funghi in soluzioni di ipoclorito di sodio; fanno insomma una bella candeggiata che purtroppo risulta impossibile da riconoscere sul prodotto finito.
Per il sapore la questione si fa più ardua, in quanto il risultato da ottenere non è oggettivo come l’aspetto estetico, ma deriva da un’analisi sensoriale svolta da giudici reclutati e sulla base degli esiti degli assaggi, vengono fuori delle caratteristiche qualitative che l’industria deve riprodurre fedelmente nel prodotto.
Alimenti come melanzane, carciofi, zucchine, etc… con i trattamenti termici perdono le loro proprietà organolettiche e per ricostituire la sapidità, oltre alle spezie è necessario utilizzare i temuti “esaltatori” di sintesi. Capostipite della categoria è il glutammato monosodico (E621).
Oramai arcinoto non solo ai nostri lettori, ma sempre di più alla collettività, questo additivo è diventato un grosso problema per l’industria che deve cercare in tutti i modi di non annoverarlo tra gli ingredienti in etichetta.
Dadi, risotti e zuppe in busta, preparati per brodo e conserve vegetali in genere… ormai è consuetudine trovare sulle confezioni la scritta a caratteri cubitali “senza glutammato”.
Guardando l’etichetta di questi prodotti, troviamo però sempre un ingrediente particolare, l’estratto di lievito. Cosa sarà mai? Semplicemente il “cavallo di Troia” che nasconde il glutammato nella sua pancia.
Il glutammato è un amminoacido presente nella struttura proteica delle proteine, di cui sono ricche specialmente in alimenti come il Parmigiano, la carne, la soia… Se facciamo in casa un brodo di carne, le proteine si idrolizzano e liberano il glutammato, uno dei principali responsabili del sapore che ne viene fuori; ma se il brodo è vegetale tutto questo non accade e per renderlo più saporito è necessario aggiungere l’amminoacido in questione.
L’estratto di lievito deriva da un drastico trattamento distruttivo delle cellule di questi microrganismi con liberazione di glutammato dalle proteine in dosi molto concentrate.
Pertanto leggere in etichetta estratto di lievito, oppure in altri casi proteine vegetali idrolizzate, è la stessa cosa che leggere glutammato; una bella e proficua trovata. Basta conoscere cosa significa, però, per smascherarla.