La conoscenza è potere, anche quando si parla di abitudini alimentari. Ma se sul fronte della sicurezza alimentare le normative sono stringenti da diversi decenni, per quanto
riguarda il benessere animale, invece, la questione è diventata rilevante solo negli ultimi anni. E lo ha fatto in maniera così dirompente, grazie a inchieste giornalistiche, documentari, libri e denunce da parte delle associazioni animaliste e vegane, che persino i produttori alimentari si sono dovuti adeguare alla nuova ondata di consapevolezza. In Italia ci sono oltre 23 milioni di capi negli allevamenti, tra bovini, suini, ovini, caprini, bufalini ed equini: la maggior parte viene cresciuta per diventare carne o produrre derivati destinati agli scaffali della grande distribuzione.
Welfare in etichetta
Sempre di più i grandi marchi, assieme alla rassicurazioni ormai familiari ai consumatori (come “Ogm free, senza olio di palma, senza grassi saturi”) pubblicizzano i loro prodotti con le parole “benessere animale”.
Alcuni direttamente in etichetta, altri in apposite pagine dei loro siti. Da Coop, ad Amadori, fino a Granarolo e persino Ikea (nell’area ristorazione), sbandierano e garantiscono l’attenzione per le condizioni dell’animale. Promessa sufficiente per acquistare in tutta tranquillità e senza porsi domande? Non proprio.
Associazioni come Lav, Essere animali, Equal Animality e Ciwf hanno più volte documentato con immagini scioccanti, per esempio, le condizioni drammatiche dei suini negli allevamenti italiani. Secondo Gianluca Felicetti, direttore della Lega Anti-vivisezione: “Siamo di fronte a animal washing, alla stregua del green washing. Così come tutti i prodotti a un certo punto sono diventati ecologici e sostenibili, la stessa cosa sta avvenendo con i prodotti di origine animale riguardo il benessere. È marketing, non vi è logo o dicitura normata per legge”, spiega che Felicetti, che non è convinto neanche dell’azione del Crenba, il Centro di referenza nazionale per il benessere animale, che stabilisce le linee guida al riguardo. Indicazioni che non sono vincolanti. “Nel momento in cui c’è il mancato rispetto delle leggi è impensabile che abbiano credito standard volontari” sostiene.
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Con le mani nel… marketing
Ma il fatto che non esista una certificazione stabilita dalla normativa nazionale o comunitaria sul benessere animale, non vuol dire che le aziende siano libere di scrivere qualsiasi cosa per pubblicizzare i loro prodotti. Lo scorso gennaio, infatti, Amadori si è impegnata con l’Autorità Antitrust a correggere alcune informazioni sul benessere animale riferite ai suoi prodotti, per non rischiare una multa da 5 milioni. L’Ente nazionale protezione animali si era rivolta all’Autorità per segnalare che sebbene fossero due le linee di produzione che rispettavano standard più stringenti, dalla comunicazione commerciale si lasciava intendere che l’impegno fosse esteso a tutti i prodotti. Inoltre, l’Antitrust chiariva: “Con specifico riferimento al pollo 10+, il claim impiegato ‘maggiore spazio in allevamento rispetto ai limiti di legge (con una densità massima di 33 kg per mq rispetto a 39 kg per mq)’ appariva non rispondente alla realtà”, perché l’azienda si limitava in realtà a rispettare il limite di densità massima, pari a 33 kg/mq, stabilito per legge. Il riferimento a 39 riguarda una deroga che le Asl possono concedere. Ecco, dunque, un esempio di come le aziende possano giocare sulla scarsa conoscenza della legge da parte dei consumatori.
“Etichette più complete”
Anche in seguito ai tanti casi di ambiguità in questa fetta di mercato, Ciwf Italia e Legambiente hanno lanciato una petizione per chiedere ai ministri della Salute e delle Politiche agricole di rimediare al più presto a questa situazione di opacità che “produce un grave danno sia ai consumatori che agli allevatori medio-piccoli più virtuosi”, proponendo che venga introdotta a livello nazionale un’etichettatura volontaria che indichi il metodo di allevamento.
L’interesse da parte dei consumatori ci sarebbe, eccome: secondo un sondaggio di Ciwf Italia, il 54% degli italiani sarebbe molto disposto a pagare il 10% in più per comprare uova e carni da animali allevati all’aperto, sommato al 33% che sarebbe “abbastanza disposto”, significa che 8 italiani su 10 sono pronti a fare la loro parte per cambiare il sistema di produzione alimentare. Una propensione che le aziende conoscono bene, come spiegano le tante assicurazioni che compaiono sulle etichette alimentari e che abbiamo deciso di approfondire nel servizio in edicola sul numero di maggio del Salvagente.