Olio di Palma, Wwf: “Nestlé non fa abbastanza per l’ambiente”

In Italia, Nestlé figura tra le aziende virtuose dal punto di vista dell’impegno ambientale sull’olio di palma, ma all’estero viene bacchettata dal Wwf per non aver fatto abbastanza. La popolare associazione ambientalista, infatti, ha pubblicato la Classifica dei compratori di olio di palma 2016. Per ogni marchio analizzato, il Wwf ha preso in considerazione il tempo impiegato nella Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile, organismo internazionale nato per limitare i danni ambientali dovuti alle deforestazioni cui portano le piantagioni di palma; se l’impegno è di dimensione nazionale o globale; la quantità complessiva di olio di palma utilizzata; percentuale dell’olio di palma comprato con la certificazione ambientale Cspo.

Ottimi Colgate, Danone e Ferrero

Secondo questi parametri, tra le multinazionali più popolari, il risultato migliore è quello di Colgate-Palmolive che ottiene voto 9 su 10, seguita da Danone, Estee Lauder, Ferrero,Kellogg’s, Kraft Heinz, Lindt e Pepsico. Barilla, Johnson e Johnson (specializzata in detergenti e prodotti da bagno), e L’Oreal si posizionano nella parte “sulla buona strada” con un 8, seguiti da Nestlé, che pur non essendosi classificata in fondo, ha registrato un risultato peggiore del 2013. Il colosso alimentare svizzero, che utilizza più di 417.000 tonnellate di olio di palma all’anno, si è impegnato a sostenere la battaglia (fa parte dell’Unione italiana olio di palma sostenibile) ma ancora non è riuscito a fare abbastanza secondo l’esperta di commodities agricole del Wwf Emma Keller, che a FoodNavigator ha dichiarato: “Hanno già fallito sul loro impegno verso i consumatori di approvvigionassi al 100% con materie CSPO entro il 2013. Sono ancora ‘sulla buona strada’, ma per una società delle dimensioni, la scala e il livello di influenza di Nestlé, ci aspettiamo di più”, ha aggiunto.

La risposta di Nestléwwf olio di palma

Un portavoce di Nestlé ha accolto con favore l’esame della performance della società da parte del Wwf, ma ha fatto notare che la valutazione del WWF si concentra sulla CSPO nella sua catena di approvvigionamento, ma non è riuscita a riconoscere il livello generale di rintracciabilità in vigore. “Siccome abbiamo notevolmente migliorato la tracciabilità dell’olio di palma che acquistiamo, abbiamo anche eliminate il nostro acquisto di certificati GreenPalm”, ha spiegato in un comunicato. “Alla fine del 2015, oltre il 90% dell’olio di palma che compriamo era riconducibile fino ai centri di raffinazione e il 46% alle piantagioni. Il nostro prossimo passo è quello di raggiungere il 80% riconducibile a piantagione entro il 2017. Attualmente, il 47% del nostro olio di palma è di provenienza responsabile”.

L’Efsa e i rischi per la salute

 Il grasso tropicale più amato dall’industria alimentare non è più solo ritenuto la causa delle deforestazioni nel Sud Est asiatico e, per l’eccesso di grassi saturi, di favorire l’insorgenza di malattie cardio-vascolari. L’Efsa, con il famoso report del 3 maggio scorso, ha messo sotto accusa l’olio di palma per la presenza eccessiva di contaminanti alimentari, come il glicidolo, composto precursore dei Ge, sostanze genotossiche e cancerogene e il 3-Mcpd nefrotossico, che si sviluppano a seguito dei processi di rafnazione degli oli vegetali ad alte temperature. Scrive l’Autorità per la sicurezza alimentare europea nel parere pubblicato il 3 maggio scorso: “I più elevati livelli di Ge, come pure di 3-Mcpd e 2-Mcpd sono stati riscontrati in oli di palma e grassi di palma, seguiti da altri oli e grassi. Per i consumatori a partire dai tre anni di età,margarine e dolci e torte sono risultati essere le principali fonti di esposizione a tutte le sostanze”. Non solo: “la stima delle esposizioni medie ed elevate al 3-Mcpd per le fasce di età più giovani, adolescenti compresi (fino ai 18 anni di età), supera la dose giornaliera tollerabile e costituisce un potenziale rischio per la salute”. Il rischio di tossicità di questo olio è legato chiaramente ai procedimenti di raffinazione ai quali è sottoposto e il 3 Mcpd è un contaminate di processo che si sviluppa a seguito della raffinazione ad alte temperature della materia prima (superiore a 220°” L’olio di palma prima di finire in biscotti, merendine, crackers, latti in polvere o di essere usato nelle friggitrici della ristorazione e dell’industria di trasformazione, viene sottoposto a trattamenti chimici talmente spinti che, secondo la media rilevata dall’Efsa, arriva addirittura a produrre 2.920 microgrammi per chilo di 3-Monocloropropandiolo. Un livello “monstre” che in “natura” non ritroviamo. Come abbiamo dimostrato nel numero 6, i livelli di 3 mcpd in altre oli, a cominciare dal girasole fino all’extravergine sono decisamente più bassi nell’ordine dddi 20-40 microgrammi per chilo rispetto ai 2.920 di media riscontrato dall’Efsa. Della serie: dire addio all’olio di palma non solo è possibile ma anche necessario. E l’industria dispone delle soluzioni alternative