Mascherine, solo cinque su cento ottengono il visto per la sicurezza

MASCHERINE

Il grande business delle mascherine, con aziende che si sono convertite, importatori a caccia di questi dispositivi in tutto il mondo, oltre che distinguersi per la vera e propria giungla di prezzi che il Salvagente ha in più occasioni raccontato in questi mesi, è anche fatto di modelli potenzialmente insicuri, senza alcuna validazione e senza test che garantiscano l’efficacia.

La prova viene dai risultati di 45 giorni di lavoro dell’Inail che ha reso noti gli esiti del lavoro della task force multidisciplinare a cui è stata affidata la procedura di validazione dei dpi da produrre, importare o immettere in commercio, funzione attribuita in via straordinaria all’Istituto, fino al termine dell’emergenza Coronavirus, dall’art. 15 del decreto Cura Italia dello scorso 17 marzo.

Sul sito dell’Istituto si può leggere la lista dei dpi (occhiali, visiere, semimaschere, indumenti di protezione, guanti, calzari) validati positivamente che viene periodicamente aggiornata.

Il procedimento abbreviato di validazione prevede l’invio all’Inail di un’autocertificazione nella quale, sotto la propria esclusiva responsabilità, il produttore, l’importatore o chi intende immettere in commercio il dispositivo di protezione individuale attesta le sue caratteristiche tecniche e il rispetto di tutti i requisiti di sicurezza previsti dalla normativa vigente, allegando certificazioni e test report rilasciati da soggetti abilitati. Le validazioni in deroga dell’Istituto prevedono un esame sia della rispondenza documentale, sia del rispetto dei parametri e limiti imposti dalla normativa di riferimento.

Fa scalpore costatare il giudizio di non conformità per il 95% delle pratiche esaminate. In particolare il giudizio di non conformità ha riguardato prodotti non valutabili come dpi (pari a circa il 15% dei provvedimenti negativi), prodotti configurabili come simil-mascherine chirurgiche, eventualmente valutabili dall’Istituto superiore di sanità (12%), e prodotti che non garantiscono i requisiti di qualità e sicurezza per la protezione di lavoratori e operatori sanitari (73%), per l’assenza di relazioni sulle prove effettuate sui dispositivi, la presentazione di “attestazioni di conformità” o di “certificati di compliance” non valutabili, perché rilasciati su base volontaria da enti non accreditati per i dpi (e in alcuni casi non risultati presenti nei relativi database), o per la mancata indicazione puntuale dei modelli di prodotto o del produttore.

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