Un nuovo report della Ong Water Witness International racconta come il blu usato per tingere i jeans a basso costo venduti in occidente stia inquinando pesantemente i fiumi africani. La ricerca svolta in cinque paesi africani, oltre a raccogliere dati ha usato interviste con esperti del governo, delle imprese e della società civile.
“Sebbene esistano sacche di buone pratiche, la nostra ricerca mostra che la produzione di abbigliamento, anche per i grandi marchi in Europa, Regno Unito e Stati Uniti sta uccidendo i fiumi africani attraverso scarichi inquinanti di acque reflue industriali non trattate” scrive Wwi. In questi posti, il settore compete con le comunità e la natura per l’accesso alla scarsità d’acqua e che, in alcuni casi, le esigenze delle fabbriche hanno la priorità sul diritto umano all’acqua. Gli operai, circa l’80% dei quali sono donne, spesso non hanno accesso a lavatoi e servizi igienici, e che ciò lede la loro dignità, benessere e salute.
Le richieste
“In particolare, la mancanza di accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici sul posto di lavoro è un indicatore ampiamente riconosciuto della schiavitù moderna” scrive il rapporto, che chiede “responsabilità e leadership da parte delle parti interessate del settore della moda per invertire questa tendenza inaccettabile e apparentemente diffusa tendenza all’uso irresponsabile e illegale dell’acqua”. tra le misure da adottare immediatamente una buona gestione dell’acqua in tutto il settore, nuovi standard e una divulgazione trasparente delle prestazioni sull’acqua in modo che le imprese responsabili possono risaltare. “Produttori, marchi, rivenditori, investitori, governi e clienti di alto livello devono agire ora per garantire che l’industria della moda abbia una “impronta idrica equa” in Africa” scrive Wwi.
Un mercato in crescita
In Africa le esportazioni di moda generano un fatturato di 4,6 miliardi di dollari all’anno, una cifra che supera il flusso annuale di aiuti in Africa da qualsiasi donatore europeo. L’Africa ha ora un punto d’appoggio importante nella moda globale, settore che nel 2019 valeva 2,5 trilioni di dollari e impiegava 75 milioni di persone. I principali produttori includono Sudafrica, Eswatini, Mauritius, Madagascar, Burkina Faso, Lesotho, Kenya ed Etiopia.
Alcuni casi emblematici
In particolare, in Lesotho, i ricercatori del WWI hanno trovato un fiume pesantemente inquinato dai colorianti artificiali. Nel fiume Msimbazi a Dar es Salaam (Tanzania), dai campioni di acqua raccolti nei pressi di un’industria tessile è emerso un pH pari a 12, altissimo. Acque che vengono utilizzate dalle comunità locali per l’alimentazione, l’irrigazione dei campi e le pratiche igieniche.
I grandi marchi che producono in Africa
Il report indica 50 brand di fama internazionali che producono o hanno prodotto i loro capi di abbigliamento in nazioni africane, pur non facendo alcun collegamento diretto tra le loro attività e l’inquinamento. Zara, H&M, Mango, Calvin Klein, Levi’s, Adidas e Reebok, sono solo alcuni dei nomi che producono in Africa.
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La posizione di H&M
H&M scrive al Salvagente: “H&M Group si rifornisce in Africa, ma attualmente il nostro approvvigionamento è molto limitato e non include i processi a umido ad alta intensità d’acqua (water intense wet-processes). L’acqua riveste un ruolo cruciale per l’industria tessile in Africa, così come per l’intero settore. H&M Group collabora con WWF per affrontare i rischi idrici e aumentare la consapevolezza del problema”.