Abiti usati, venderli senza igienizzarli è traffico illecito di rifiuti

Secondo la Corte di Cassazione immettere sul mercato abiti usati, nello stesso stato in cui vengono prelevati dagli appositi cassonetti che si trovano in strada, costituisce un reato di traffico illecito di rifiuti

Rimettere sul mercato abiti usati, nello stesso stato in cui vengono prelevati dagli appositi cassonetti che si trovano in strada, costituisce un reato di traffico illecito di rifiuti. E in quanto tale è punito penalmente. È quanto ha stabilito, anzi ribadito, la Corte di Cassazione, sezione III penale, nella sentenza n. 44342 del 4 dicembre 2024, in cui si pronuncia su un caso che ha visto ingenti quantitativi di merce messa sul mercato utilizzando il logo della onlus “Africa nel cuore” malgrado all’associazione non fosse mai arrivato nulla. Gli abiti erano accompagnati da documenti di trasporto nei quali erano falsamente indicati come “materie prime secondarie” e venduti sia in Italia sia all’estero.
Un business di circa 2 milioni e mezzo di euro in due anni, derivanti dalla vendita sulle bancarelle di 7mila tonnellate di abiti che non sono stati sottoposti ad alcun trattamento di igienizzazione. Come emerso dalle intercettazioni, infatti, processi di cernita e igienizzazione avrebbero fatto lievitare costi e tempi di consegna.

Cosa ha stabilito la Cassazione

La Corte, confermando la condanna degli imputati, ha respinto i motivi di impugnazione fondata sulla presunta mancata individuazione e quantificazione esatta dei rifiuti tessili oggetto del reato e sull’assenza di un effettivo danno all’ambiente o alla salute, trattandosi esclusivamente di abiti usati inseriti in un circuito di recupero per fini di solidarietà sociale e trasportati per essere destinati a una ditta abilitata al trattamento degli scarti tessili.

Per la Suprema corte non ci sono dubbi sulla qualifica di rifiuti urbani non pericolosi e sul conseguente reato di traffico illecito. “Non può certamente dubitarsi che gli indumenti usati, conferiti tramite cassonetti o mediante raccolta porta a porta, siano da qualificarsi rifiuti, per l’evidente ragione che il detentore si è disfatto di tali beni con la chiara intenzione di non servirsene più, quale che sia il movente dell’azione, che, ad esempio, può essere sorretta da uno scopo di beneficenza” scrivono i giudici.
Si ribadisce che la cessazione della qualifica di rifiuto dell’indumento usato è subordinata alle operazioni di recupero, necessaria per l’immissione nel ciclo di consumo e per ottenere alcune certificazioni sanitarie.
Una conclusione che è confortata dall’entrata in vigore della legge 166/2016 in tema di donazione e distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi.
Una norma che sottrae gli abiti usati alla nozione di rifiuto solo quando questi siano consegnati dai privati direttamente “presso le sedi operative dei soggetti donatari”. E questi ultimi sono da individuare negli enti pubblici o privati che, senza scopo di lucro, li gestiscono. Nel caso in questione, la raccolta non era stata fatta da un ente benefico ma da una società commerciale, autorizzata al trattamento dei rifiuti.