Lo studio pubblicato sul Journal of Infection ha quantificato nel 68% i casi di infezioni antibiotico-resistenti legati negli Usa al consumo di pollo. I ricercatori: “Intervenire con igiene e riduzione degli antibiotici in allevamento”. Ma l’industria convince l’Onu a cancellare impegni precisi
Un recente studio pubblicato sul Journal of Infection ha individuato il pollame come la principale fonte di infezioni da Campylobacter negli Stati Uniti, suscitando serie preoccupazioni circa l’aumento della resistenza agli antibiotici nei batteri trasmessi tramite alimenti. Secondo i risultati, il 68% delle infezioni da Campylobacter verificatesi tra il 2009 e il 2019 sarebbe da attribuire a pollame contaminato, un dato che pone l’accento sulla necessità di rivedere le pratiche nell’industria avicola.
I ricercatori dell’Ineos Oxford Institute for Antimicrobial Research, in collaborazione con agenzie sanitarie statunitensi, hanno utilizzato tecniche avanzate di “machine learning” per analizzare oltre 8.800 campioni di infezioni umane e confrontarli con quasi 17.000 genomi di batteri provenienti da potenziali fonti animali, inclusi bovini, suini e uccelli selvatici. Questo approccio ha permesso di identificare i tratti genetici distintivi del batterio e di attribuire con precisione le fonti di infezione.
La minaccia della resistenza antimicrobica nel pollame
Lo studio ha lanciato un allarme importante: la resistenza antimicrobica (AMR) nei ceppi di Campylobacter presenti nel pollame è in costante aumento. Durante i dieci anni analizzati, i ricercatori hanno osservato un incremento significativo dei geni di resistenza agli antibiotici, in particolare nei batteri isolati da carni di pollo. Questo fenomeno rappresenta una grave minaccia per la salute pubblica, poiché infezioni causate da batteri resistenti sono più difficili da trattare e possono provocare complicazioni più gravi rispetto a infezioni causate da batteri sensibili ai farmaci.
Il professor Samuel Sheppard, a capo della ricerca presso l’Ineos Oxford Institute, ha sottolineato la necessità urgente di interventi per contenere il fenomeno: “Abbiamo dimostrato che non solo il pollame è un serbatoio significativo di infezioni da Campylobacter, ma che la resistenza antimicrobica sta aumentando nel bestiame, soprattutto nel pollame. Per proteggere noi stessi e i nostri antibiotici, l’industria avicola deve agire con urgenza per ridurre la diffusione dell’infezione tra i polli”, ha dichiarato Sheppard.
Allevatori contro
In realtà, a leggere attentamente le inchieste sulle manovre della lobby degli allevatori statunitensi, come quelle condotte dall’organizzazione non profit US Right to Know (USRTK) e riportate dal Salvagente, l’atteggiamento degli industriali sembra esattamente l’opposto a quanto auspicato dai ricercatori.
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Un reportage dei giorni scorsi, infatti, ha rivelato che, in vista di un’importante riunione delle Nazioni Unite (ONU) prevista per il 26 settembre, le pressioni di alcuni settori industriali e di governi di paesi chiave come Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda, hanno portato all’eliminazione di obiettivi concreti per la riduzione dell’uso di antibiotici nell’agricoltura animale
Pollo sotto accusa
Tornando allo studio, i risultati mostrano come il 68% delle infezioni al pollame, seguito dai bovini (28%), mentre suini e uccelli selvatici hanno contribuito rispettivamente solo all’1% e al 3% delle infezioni umane.
Gran parte erano legati al Campylobacter, uno dei principali batteri responsabili di malattie di origine alimentare negli Stati Uniti. I sintomi tipici dell’infezione includono diarrea, febbre e crampi addominali.
Secondo i dati dei Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (CDC), negli Stati Uniti si registrano ogni anno circa 1,5 milioni di casi di infezioni da Campylobacter. Queste infezioni sono spesso collegate a consumo di carne poco cotta o contaminata durante la preparazione. Il pollo, la carne più consumata nel Paese, rappresenta una fonte particolarmente preoccupante di contaminazione.
I costi? Scaricati sulla salute pubblica
I risultati dello studio sollevano importanti questioni per la sicurezza alimentare e le politiche di salute pubblica. Le infezioni causate da batteri resistenti agli antibiotici non solo sono più difficili da trattare, ma comportano anche costi sanitari maggiori e una maggiore pressione sul sistema sanitario. Per ridurre l’incidenza delle infezioni e arginare la diffusione della resistenza antimicrobica, lo studio suggerisce l’implementazione di pratiche di allevamento più sicure e una riduzione dell’uso di antibiotici nel settore avicolo.