Contro la plastica l’Italia gioca da sola

PLASTICA
Fruits in Plastic Bags, Shopping with Plastic Bags, Recycling Concept

E a volte c’è chi nel nostro paese per salvare la plastica non ha remore a utilizzare polemiche strumentali pur di falsare la partita. Chi non ha sentito parlare dell’allarme sull’addio all’insalata in busta per colpa dell’Europa (cit. Coldiretti)? Peccato che la direttiva reciti testualmente tra le eccezioni “la necessità di evitare perdite di acqua o turgore, rischi microbiologici o urti.”

Vi anticipiamo un articolo del servizio sull’argomento che potete leggere integralmente sul numero in edicola (e in digitale qui).

 

Ogni anno, in Italia vengono gettati nella spazzatura circa 14 milioni di tonnellate di imballaggi. Una cifra enorme e in costante crescita. Vero è che la maggior parte di questi contenitori vengono avviati al riciclo (oltre il 70%, con picchi dell’87% se parliamo di carta e cartone, passando per il 72% della plastica e arrivando al 67 dell’alluminio) ma non sempre una bottiglia di plastica gettata via torna a essere una bottiglia di plastica nuova. Anzi, finisce spesso per essere sminuzzata in tanti frammenti di plastica per comporre un pile o una maglietta. Questo dà vita a quel fenomeno che si chiama “downcycling”, il riciclo dei rifiuti in cui il materiale riciclato è di qualità e funzionalità inferiori rispetto al materiale originale.

Lo chiede l’Europa

Lo scorso novembre, la Commissione europea ha proposto un Regolamento sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggi, partendo dal presupposto che l’impatto ambientale del packaging è ancora troppo elevato e servono sforzi di riduzione maggiori in tutti i paesi membri. Gli obiettivi principali della direttiva sono tre: ridurre l’attuale livello di produzione di rifiuti da packaging, promuovere i principi dell’economia circolare nel settore e incrementare l’uso di materiale riciclato negli imballaggi. Una direttiva di buon senso, dal momento che la produzione di imballaggi cresce e non è possibile riciclare tutto, ma sulla quale l’Italia non è d’accordo. Nel nostro paese, associazioni di categoria – Confindustria in primis – hanno alzato gli scudi e parlato di “impatto devastante” del Regolamento su una filiera, quella del riciclo italiano, sbandierata come all’avanguardia nell’industria europea.

Tra le proposte della Commissione, ad esempio, c’è quella per cui entro il 2030, il 20% delle bevande calde e fredde take-away dovrà essere servito in un contenitore in grado di poter essere riutilizzato. L’obiettivo sale al 40% nel 2040. Semplici accorgimenti di questo tipo, per l’Italia, metterebbero a rischio milioni di posti di lavoro. 6 milioni, secondo quanto riportato dal Sole24ore, organo di stampa che ripropone la posizione di Confindustria.

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Sepolti da imballaggi

In media, ogni europeo produce quasi 180 kg di rifiuti di imballaggio all’anno. Gli imballaggi sono tra i principali prodotti ad impiegare materiali vergini: il 40% della plastica e il 50% della carta utilizzate nell’Ue sono infatti destinati agli imballaggi. Se non si agisce, entro il 2030 l’Unione europea registrerebbe un ulteriore aumento del 19% dei rifiuti di imballaggio e, per i rifiuti di imballaggio di plastica, addirittura del 46%. Per far fronte alla crescente fonte di rifiuti, le norme proposte dalle Commissione garantiranno opzioni di imballaggio riutilizzabili, elimineranno gli imballaggi superflui, limiteranno gli imballaggi eccessivi e determineranno etichette chiare a sostegno di un corretto riciclaggio.

Qualche esempio. L’obiettivo principale è ridurre i rifiuti di imballaggio pro capite per Stato membro del 15% rispetto al 2018 entro il 2040. Il tutto può avvenire, dice la Commissione, attraverso sia il riutilizzo che il riciclaggio. Inoltre, per affrontare il problema degli imballaggi chiaramente inutili ne saranno vietate alcune forme, ad esempio quelli monouso per cibi e bevande consumati all’interno di ristoranti e caffè, quelli monouso per frutta e verdura (non stiamo parlando delle insalate in busta, ma delle confezioni con 2 cetrioli, 3 banane, 1 zucchina…), flaconi in miniatura per shampoo e altri prodotti negli hotel. Infine, molte misure sono volte a rendere gli imballaggi totalmente riciclabili entro il 2030 e vi saranno inoltre tassi vincolanti di contenuto riciclato che i produttori dovranno includere nei nuovi imballaggi di plastica.

Il deposito cauzionale

La Commissione, quindi, punta a potenziare le misure di riutilizzo. Ce n’è una che viene sempre più adottata dagli Stati membri ed è il deposito cauzionale (da non confondere con il vuoto a rendere). Di questo sistema abbiamo già parlato nel numero di luglio 2022 de Il Salvagente. Si chiama Deposit return system (Drs) ed è in uso in tutta la Scandinavia, in Germania, in Estonia, nei Paesi Bassi, in Croazia e Slovacchia (in tutto sono 12 gli Stati membri che lo hanno adottato) e quest’anno verrà introdotto anche dalla Grecia. A marzo del 2022 è partita la campagna “A buon rendere” da parte dell’associazione Comuni Virtuosi, con cui si chiede al governo l’introduzione di un sistema Drs di portata nazionale, obbligatorio per i produttori e che copra tutte le tipologie di bevande in contenitori di plastica, vetro e alluminio. La proposta è sostenuta da diverse organizzazioni, tra cui Legambiente, Italia Nostra, Wwf, Touring club, Zero waste italy, Slow food. Eppure, a distanza di un anno dall’avvio della campagna, la politica e le associazioni di categoria industriali continuano a opporsi e a difendere lo status quo.

Il ruolo (e gli interessi) del Conai

Quale status quo? Attualmente, le imprese produttrici sono obbligate (a meno che non si uniscano in consorzi indipendenti) ad aderire al programma di raccolta degli imballaggi disposto dal Conai (Consorzio nazionale imballaggi). Il Conai agisce in sinergia con l’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni, con la quale ha un accordo che definisce la copertura parziale dei costi sostenuti dai Comuni per il recupero degli imballaggi attraverso la raccolta differenziata. Le aziende aderenti al Consorzio devono versare un contributo obbligatorio, il cosiddetto Cac, Contributo ambientale Conai, che rappresenta la forma di finanziamento alle attività di raccolta differenziata e di riciclo sostenute dalle municipalità. Quindi, più si ricicla e più sarà grossa la quota ricevuta dal Conai. Con l’istituzione del sistema di deposito cauzionale, come ha spiegato in diverse interviste Silvia Ricci, responsabile economia circolare di Comuni virtuosi, il sistema verrebbe invece disciplinato da un’apposita normativa e le imprese dovranno entrare a far parte di un nuovo sistema gestito da un operatore di sistema non profit. Quest’ultimo si finanzierebbe attraverso il contributo Erp (responsabilità estesa del produttore), con la vendita dei materiali raccolti ai riciclatori e con i contributi cauzionali versati dai clienti che non vengono recuperati.

I vantaggi del Drs sarebbero diversi, secondo i proponenti: ogni anno sfuggono alla raccolta differenziata ben sette miliardi di contenitori monouso. Se a ogni contenitore reso venisse dato un valore economico, il consumatore sarebbe sicuramente più incentivato a conferirlo correttamente. Il Drs avrebbe pure un ruolo fondamentale anche per raggiungere gli obiettivi fissati dalla direttiva europea per la riduzione delle plastiche monouso (la cosiddetta Sup, Single use plastic) che, tra i vari target, impone un obiettivo di raccolta selettiva del 77% entro il 2025 e del 90% entro il 2029. Come mostrano i dati del “Global deposit Book 2020”, curato dalla piattaforma europea Reloop, il Drs danese è in grado di intercettare il 94% dei contenitori di Pet, quello tedesco arriva al 97%. Anche in Lituania, dove il Drs è stato implementato solo nel 2016, la quota è già arrivata al 92%.

 

Bisogna migliorare il tasso di circolarità

La campagna “A buon rendere” fa notare che un conto è il tasso di riciclo, un conto è quello di circolarità, inteso come percentuale di risorse provenienti da riciclo dei rifiuti. Secondo gli ultimi dati diffusi da Eurostat, il tasso di circolarità dei materiali nell’Unione europea nel 2021 è stato pari all’11,7%, lo 0,1 in meno rispetto all’anno precedente. Nonostante l’Italia sia uno dei paesi più virtuosi, è sceso dal terzo al quarto posto nella classifica, con un tasso di circolarità del 18,4%, due punti in meno rispetto al 2020. A livello globale, poi, il tasso di circolarità sta peggiorando: dal 8,6% del 2020 è sceso al 7,2% a causa dell’aumento nell’estrazione e l’utilizzo dei materiali. Questo significa che sempre più materiali vergini vengono impiegati nella produzione di imballaggi, mentre restano sempre meno materiali secondari da re-immettere nell’economia. Per questo, un’economia circolare incentrata esclusivamente sul riciclo non può tenere il passo con livelli di consumo di materiali vergini. Questi dati dimostrano che il riuso è necessario.