Green claims “In tre settimane è stata stravolta una bozza coraggiosa”

GREEN CLAIMS

Il professor Fabio Iraldo non usa mezzi termini per bocciare la proposta Green Claims della Commissione europea: “Profondamente deludente”. E rispetto a quella che era circolata solo pochi giorni prima è facile ipotizzare la manina dell’industria che ha tolto gli interventi sgraditi dalla norma che dovrebbe mettere ordine nella giungla delle autodichiarazioni “verdi”.

“Numerosi cittadini europei vogliono contribuire a un mondo più sostenibile attraverso le loro scelte in materia di acquisti. Devono quindi potersi fidare delle autodichiarazioni presentate. Con questa proposta diamo ai consumatori la garanzia del fatto che i prodotti venduti come rispettosi dell’ambiente lo siano veramente. A beneficiarne saranno anche le imprese che si sforzano realmente di migliorare la sostenibilità ambientale dei loro prodotti”. Ha usato toni trionfalistici Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo della Commissione Ue per l’European Green Deal, nel presentare – lo scorso 22 marzo – la direttiva “green claim” uscita in questi giorni dalla plenaria del Parlamento europeo.

Cos’è la direttiva “Green claim”

Si tratta della norma che dovrebbe mettere ordine nella foresta delle autodichiarazioni ambientali, migliori alleate delle aziende che vogliono rifarsi una verginità ecologica molto spesso solo di facciata. Ingannando i consumatori e aggirando le regole di trasparenza del mercato. Una direttiva attesa e necessaria dunque che, però, ha lasciato scontente le associazioni ambientaliste e quelle dei consumatori che parlano di un esito “annacquato e deludente” e accusano la Commissione europea di poco coraggio. Se da un lato mette i primi paletti nel Far West del greenwashing infatti, dall’altro il testo pecca di criteri di valutazione certi e omogenei, lascia spazio a troppe eccezioni e non prevede un sistema efficace di controlli.

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“Profondamente deludente”, il giudizio di Fabio Iraldo economista, professore di Management presso la Scuola Sant’Anna di Pisa – dove dirige il PhD in Innovation, Sustainability and Healthcare – sulla direttiva  è lapidario. “Se penso alla bozza che circolava tre settimane prima e leggo adesso questo testo, vedo un confronto impietoso. Evidentemente le lobby dell’industria erano già all’opera”.
Professor Iraldo sta dicendo che è intervenuta una manina in corso d’opera?
Dico solo che qualche settimana prima che la Commissione presentasse la proposta di direttiva, è trapelata una bozza in cui la natura dei contenuti e il coraggio con cui la stessa Commissione aveva affrontato il tema dei green claims era incredibilmente superiore rispetto alla versione ufficiale.
Cosa c’era di diverso?
La versione precedente imponeva, e non suggeriva, alle aziende l’adozione di un’unica metodologia scientifica robusta a supporto di qualunque claim ambientale volessero adottare. E stabiliva i requisiti di questa metodologia che doveva tenere conto dell’intero “ciclo-vita” del prodotto. L’unica eccezione consentita era quella del metodo Pef (Product Environmental Footprint) che come è noto fornisce già al claim una prova scientifica forte, rendendolo inattaccabile. Lo spirito dominante era insomma quello di fare valere sempre questo modello – che calcola le prestazioni ambientali di un prodotto lungo tutta la catena del valore – o un’alternativa che ci andasse vicino.
E nella versione attuale?
È incredibilmente sparito tutto. Si dice semplicemente che “quando un’azienda vuole fare un green claim deve fare ricorso a metodi di calcolo che siano robusti scientificamente”. Punto, nient’altro che un suggerimento da buon padre di famiglia. Trovo assurdo che più di dieci anni di lavoro da parte della Commissione sul metodo Pef – per omogeneizzare le metodologie e per dare un solo strumento forte a tutti i paese dell’Unione europea – siano stati buttati al vento. Ma lo sa quale è la cosa tragicamente divertente?
Quale?
La Commissione si deve essere accorta di aver fatto scappare i buoi concedendo troppa libertà alle industrie. Per cui si è “riservata la possibilità di intervenire, qualora dovesse accorgersi che le aziende usino metodi di calcolo ed evidenze diversi tra loro, per sviluppare una metodologia unitaria e omogenea”. Ma questo era lo scopo di questa direttiva che la stessa Commissione europea ha tradito.
Ci sono altre differenze tra la versione “ufficiosa” e il testo definitivo?
Assolutamente sì. È stato alleggerito – per esempio – in modo drastico il riferimento ai “dati primari”. Ovvero a quei dati ambientali, effettivamente misurati, di cui l’azienda dispone mentre fabbrica un prodotto da immettere sul mercato. Così come il dovere di fornire una pianificazione molto precisa in cui siano definiti termini, impegni e risorse economiche messe in campo, per ottenere il via libera a un claim che annunci un target futuro di carbon neutrality.
A chi imputa questo significativo cambio di rotta?
Non so quale lobby sia intervenuta, non quella degli Stati credo. Che avrebbero potuto addolcire i requisiti richiesti una volta recepita la direttiva.
Anzi, questo testo danneggia paesi (come l’Italia) e aziende che hanno fortemente creduto nella Pef e hanno investito risorse ingenti per adeguarsi allo standard richiesto. La direttiva finisce infatti con il mettere il metodo più solido e robusto al pari degli altri e a non garantire il criterio della omogeneità. Scontenta tutti insomma.
Anche i consumatori?
Certo. Scontenta quasi tutti gli Stati membri, non quelli che non vogliono interferenze nel loro tentativo di mascherarsi dietro a un claim come quello della carbon neutrality. Scontenta le imprese più lungimiranti che meriterebbero di essere ricompensate. E scontenta il consumatore perché non dà alcuna garanzia di trasparenza.
Pensa che il testo possa migliorare in corso di negoziazione?
Temo di no. La storia insegna che nelle fasi di negoziazione in genere si abbassa l’asticella e non il contrario. E questo mi preoccupa.
Ci sarà almeno un aspetto positivo in questa proposta di direttiva?
L’unico salvagente è la presenza dell’ente certificatore terzo che dovrà verificare se le evidenze scientifiche a supporto del claim siano abbastanza solide, robuste e credibili. Non ci resta che sperare nei certificatori.