8 considerazioni sulla carne sintetica per diradare la “cortina fumogena”

CARNE SINTETICA

Contro quella che – a torto – viene definita carne sintetica, si è alzata una cortina fumogena che dà l’impressione di voler nascondere problemi molto più pressanti. Ciò non toglie che i dubbi ci siano. Il professor Alberto Ritieni prova ad affrontarli dal punto di vista della scienza, non delle emozioni

Nella dialettica, una strategia comune è quella di alzare un intenso fuoco di copertura per complicare la comprensione di ciò che si discute e per raggiungere questo scopo spesso si fa leva agitando paure, vere o false che siano.

Le recenti discussioni sull’introduzione sia sulla farina di insetti che della carne sintetica sono un esempio perfetto: si prestano a mascherare priorità maggiori che sono sul proscenio, trasformandosi da problematiche incidentali a decisioni strategiche per il nostro sistema paese.

La Scienza Galileana con i suoi dubbi, prove e controprove può aiutare a svelare il “fuoco di sbarramento” e a comprendere se è sensata la paura della “carne sintetica” oppure se, al contrario, possono esserci dei vantaggi da non trascurare.

 

Carne sintetica? Ma mi faccia il piacere…

In prima battuta, oggi si parla di carne “sintetica”, un termine del tutto opposto al concetto di “naturale”, assimilandola di conseguenza a un prodotto da laboratorio quindi, molto lontano dalla carne così come la intendiamo.

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Purtroppo, un termine errato, che non corrisponde alla realtà, crea più problemi di quanto si pensi. Il processo di produzione in realtà è un classico processo di fermentazione dove a partire da cellule staminali muscolari di pollo o di suino messe in un bioreattore e alimentate con i classici nutrienti (proteine, lipidi, vitamine etc.), si ottengono quantità di cellule muscolari ad libitum. In due mesi si raggiungono anche 50.000 tonnellate di prodotto, considerando che un suino da carne può pesare anche 150 kg, dalla coltivazione della carne si ottiene carne pari a circa 300.000 suini al netto di scarti e parti non edibili.

La fermentazione è nota fin dal tempo degli Egizi per produrre vino, birra, prodotti lievitati, sfruttando l’abilità biochimica dei lieviti di creare dei prodotti ottimi per le nostre tavole.

La carne coltivata non usa processi di sintesi né tantomeno alambicchi, provette o paioli fumanti stile la Strega Amelia di Disney. Non c’è nessuna manipolazione del Dna, o uso di tecniche misteriose, semplicemente permettiamo a cellule totipotenti come lo sono le staminali di diventare cellule muscolari del tutto identiche tra loro.

Aggiungiamo che utilizzando per la loro crescita dei nutrienti, ad esempio, ricavati dai sottoprodotti delle altre filiere ci sarebbe un basso costo e un’ulteriore riduzione dell’impatto ambientale.

 

L’uovo e la gallina

Una seconda obiezione consiste nel non accettare di mettere in tavola qualcosa che deriva da una cellula isolata che si riproduca a nostro piacimento.

Un esempio che potrebbe aiutarci a comprendere meglio chiama in causa la cellula animale più grande, più comune e per giunta visibile ad occhio nudo che è l’uovo.

L’uovo è una singola cellula che in circa 21 gg si sviluppa fino ad avere un pulcino completo e il guscio è il naturale incubatore. Occorrono poi altri 35-40 gg per arrivare ad un peso di circa 1,5 Kg per un pollo da carne. Nel caso della carne “coltivata” si parte ancora da una singola cellula e, non producendo scarti, ossa, tendini, interiora etc., in circa 40 gg darebbe l’equivalente di 30 milioni di polli da inserire nella filiera alimentare e non un singolo pulcino.

 

Il rischio antibiotici

Una ulteriore obiezione che viene sollevata è l’utilizzo di antibiotici per la produzione di carne “coltivata”.

Una lista di antibiotici è già autorizzata e regolata dalla attuale legislazione perché gli animali siano protetti da infezioni batteriche che potrebbero far diventare i loro derivati una fonte di pericolo per la salute pubblica per le infezioni da vari patogeni batterici.

L’eccesso di antibiotici nella zootecnia conduce alla antibiotico-resistenza che sarà la concausa di future pandemie batteriche forse più pericolose per l’uomo di quelle virali. Nella carne “coltivata” gli antibiotici sono utilizzati nella fase di trasporto, stoccaggio e di avvio del fermentatore per proteggere le staminali da batteri che si svilupperebbero insieme alla stessa carne. Una volta che la fermentazione è avanzata il loro uso tende a ridursi, le fibre muscolari ottenute sono dilavate e il rischio legato agli antibiotici sarà inferiore a quanto si dica.

 

Lontani da una bistecca

Una paura che rende complesso accettare la carne “coltivata” sulla tavola è quella di non volere nel piatto cosce, petti, bistecche prodotte in questo modo. Al momento, le conoscenze portano ad avere più che altro della carne simile al classico “macinato” da cui ricavare polpette, hamburger, nuggets o derivati simili.

Per avere qualcosa di consistenza diversa occorre avere molta pazienza perché la ricerca possa fare altri passi avanti, altrimenti “pioveranno solo polpette”. Questo al momento ci rende tranquilli che avere nel piatto una tagliata, una fiorentina, una costata etc. sia sinonimo di avere solo carni tradizionali e dunque, nessun pericolo per le filiere tradizionali e la nostra eccellente tradizione legate alle carni.

 

Il gene p53

Altri paventano il rischio che mangiando carne coltivata si abbiano delle interferenze sul funzionamento del gene p53, una delle migliori sentinelle che ci difende da tumori e da altre patologie.

La cottura, a cui segue la digestione nello stomaco, nell’intestino, i vari passaggi tra tubo digerente, fegato e cellule ci difendono da questo rischio. Del resto, mangiando carne tradizionale introduciamo questi “interferenti” perché le cellule staminali sono presenti normalmente nelle carni degli animali adulti anche se in quantità molto più basse.

Dal punto di vista della sicurezza alimentare, la carne “coltivata” offre la possibilità di gestire meglio il prodotto finale avendo il processo sotto controllo. Questo si traduce in avere meno foraggi o insilati contaminati, un minore uso di pesticidi e di farmaci veterinari, un minore rischio di zoonosi che potrebbero colpire l’uomo come nel caso dell’influenza aviaria o della peste suina.

 

Ma a cosa serve?

Altri si chiedono a cosa può servire sviluppare della carne “coltivata” quando ci sono tanti allevamenti e la carne abbonda sulle nostre tavole.

Un uso planetario della carne coltivata ridurrebbe fino al 92% le emissioni di gas serra, risparmieremmo il 78% di acqua e il 95% del suolo. In maniera miope, se ci limitiamo al nostro paese, il problema è relativo, ma se paesi in via di sviluppo del continente Asia o Africa decidessero di assumere proteine in maniera più massiccia usando allevamenti tradizionali, la crisi ambientale assumere un peso molto più rilevante.

 

Una polpetta per ricchi

Infine, il problema costi. La carne coltivata è per ricchi, al momento una polpetta costerebbe così tanto da non essere alla portata di tutti. Nel passato con i frutti esotici, il caffè e carni particolari si osservava lo stesso andamento. Il prezzo era molto elevato, poi tutto è cambiato: oggi l’Italia produce più kiwi dell’Australia, i costi di trasporto e le tempistiche sono migliorate ed è possibile avere l’esotico a basso costo. Nella carne coltivata si raggiungerà l’equilibrio di mercato libero, come sempre quando si incontreranno domanda e offerta, e il prezzo sarà tale da permetterne la sua diffusione anche in contesti socio-economici non forti.

La scelta di puntare su farine di insetti o su carni “coltivate” è sinergica a offrire più proteine e a costi inferiori alle popolazioni che ne hanno sempre più necessità. Per i paesi occidentali o industrializzati queste sembrano scelte inadeguate e non motivate, ma chi possiede le conoscenze scientifiche e le capacità tecnologiche, deve assumersi il carico e le responsabilità anche per chi è stato spinto in coda alla fila.

Un mercato in mano a big industry

Le criticità collegate a chi sviluppa e poi produrrà la carne coltivata sono tante e per molti c’è paura di un “mainstream” nelle mani delle “big industry” che vedrebbero solo nuove fonti di guadagno dal coltivare la carne.
La ricerca e “libertà” sono un assioma e il ricercatore per natura è curioso e per fortuna talvolta anche visionario.
I costi reali della ricerca da tempo sono diventati esorbitanti per cui le attrezzature avanzate sono sempre più costose, i materiali idem e la competizione feroce come mai prima. I ricercatori sono eccellenti nel “fundraising” ovvero nel cercare sostegno economico alla loro ricerca, ma i fondi pubblici oramai sono in grave secca. Se governi, agenzie internazionali, fonti pubblici di finanziamento della ricerca non sono sufficienti o addirittura sono assenti, è più che naturale che intervengano i privati a surrogarli.
Le industrie hanno spesso, “costi quello che costi”, il profitto come obiettivo finale. Lo sviluppo di prodotti di frontiera come insetti, carne coltivata, alimenti innovativi etc. hanno però costi oramai equiparabili a quelli di un farmaco.
Viene tollerato da molti che il coinvolgimento diretto del pubblico nello sviluppo di nuove medicine sia molto limitato per cui non è scandaloso che avvenga lo stesso per farine di insetti o prodotti carnei allevati.

Per concludere, l’eliocentrismo proposto da Galileo nel 1600 lo costrinse a fare abiura in nome del geocentrismo, ma non per questo Sole e Terra si scambiarono di posto nell’Universo.