Quello che non molti sanno è che i crediti da lavoro di un dipendente si prescrivono dopo un certo tempo. Ecco cosa dicono le norme in merito al tema e come evitare che il danno si traduca in una beffa
Quando ci si riferisce ai crediti da lavoro si parla di retribuzioni o di altre tipologie retributive che un lavoratore ha maturato nel corso di diversi anni di attività, che gli spettano di diritto ma che non gli sono mai stati corrisposti. Si tratta dunque di una casistica di per sé molto delicata, considerato il fatto che il lavoro è stato effettivamente svolto ma concretamente non è mai stato pagato. Risulta infatti evidente che in una situazione simile un datore di lavoro non abbia adempiuto agli obblighi previsti dalla legge attualmente in vigore.
Essendo un diritto del lavoratore, chi ha svolto quel tipo di attività che non è di fatto mai stata pagata potrà richiedere al datore di lavoro la cifra che gli spetta secondo la normativa nazionale e internazionale. Risulta però molto importante non rimandare troppo in là la richiesta, se non si vuole rischiare di incorrere in brutte sorprese.
Le tipologie di crediti di lavoro esistenti
Il credito da lavoro si può definire come un credito “speciale” rispetto a qualsiasi credito scaturente da un contratto sinallagmatico (ovvero: un accordo che prevede un corrispettivo fra prestazione e controprestazione). Speciali sono infatti le fonti che ne regolano la nascita e le forme di tutela (si tratta di fonti codicistiche, ordinarie, convenzionali, costituzionali e anche contrattuali collettive).
Sottolineiamo inoltre il fatto che non esiste un solo tipo di credito da lavoro ma, a seconda delle situazioni, ne esistono vari. In linea generale è possibile suddividerli in due macrocategorie, ovvero i crediti che dipendono da differenze retributive e i crediti che derivano da differenze contributive.
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Le differenze retributive sono gli importi che un datore di lavoro dovrebbe concedere al lavoratore per l’attività lavorativa prestata ma che per un motivo o per un altro ancora non gli sono stati corrisposti. Le differenze contributive invece, come suggerisce il nome, fanno riferimento al mancato pagamento dei contributi.
Ecco, in sintesi, tutti gli elementi che vanno a costituire la retribuzione del dipendente:
- Lo stipendio mensile (che include al suo interno anche le ferie e i permessi retribuiti)
- Le mensilità aggiuntive (ovvero la tredicesima e la quattordicesima)
- Il TFR (o Trattamento di fine rapporto, ovvero la prestazione a cui ha diritto il lavoratore dopo la fine del rapporto professionale)
- Premi e bonus di varia natura (per esempio quelli di fedeltà, o quelli legati a risultati e performance del dipendente)
- Le indennità (per esempio quelle di trasferta o di cassa)
Per quanto riguarda i contributi, invece, fanno parte di questa categoria le somme che periodicamente il datore di lavoro versa ad alcuni enti previdenziali è il caso dell’Inps, (l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) o all’Inail (l’Istituto Nazionale Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro): sono cifre importanti per il futuro del singolo cittadino quando finalmente potrà andare in pensione, o nel caso in cui avesse altre necessità assistenziali (malattia, maternità eccetera).
Va da sé che il datore di lavoro ha l’obbligo legale di versare le somme dovute ai suoi dipendenti: in caso contrario potrebbe rischiare di incorrere in sanzioni civili e penali.
Il fantasma della prescrizione
Questa parola è un termine giuridico che fa riferimento all’estinzione di un reato: con prescrizione si intende quella situazione in cui un illecito penale non potrà più essere punito se è passato un certo periodo di tempo da quando è stato commesso per la prima volta.
Il tema della prescrizione esiste anche per quanto riguarda i crediti da lavoro e può essere uno strumento molto prezioso per gli imprenditori che, per un motivo o per un altro, non hanno ancora pagato ai loro ex dipendenti la cifra che spettava loro. Di solito si parla di prescrizione in tutti quei casi in cui all’esercizio di un diritto è legato l’adempimento di un soggetto che è diverso dal titolare: l’obiettivo è non lasciare il soggetto stesso in una condizione di incertezza, visto che il secondo potrebbe in un qualunque momento richiedergli una certa prestazione.
Nel mondo del lavoro, quando un responsabile o un imprenditore non concede un pagamento o ritarda (di molto) delle somme dovute si prefigura la possibilità di giovare dei sopracitati crediti retributivi. Esistono però delle precise tempistiche da rispettare, altrimenti per l’appunto c’è il rischio che scatti la prescrizione.
Cosa dice la legge
Prima di capire se abbia effettivamente senso richiedere dei crediti retributivi è fondamentale comprendere che cosa è indicato nello specifico nel proprio Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro rispetto alla mansione occupata.
All’interno del Contratto sono prima di tutto indicate tutte quelle norme che regolamentano un certo tipo di lavoro, ne stabiliscono le caratteristiche di massima e definiscono quali sono le capacità che il lavoratore deve dimostrare di avere per svolgere correttamente la sua professione.
Nel caso in cui il dipendente dovesse riscontrare e dimostrare delle reali discrepanze fra quello che è stato il suo inquadramento contrattuale e quello che è stato il ruolo svolto all’interno di una determinata azienda potrà aver diritto non soltanto a quello scatto di livello tanto agognato ma anche al pagamento delle differenze retributive e contributive che gli spettano per legge.
Esistono tuttavia dei limiti specifici entro i quali possono essere portate avanti determinati tipi di richieste. Secondo quanto riporta l’art. 2948 c.c. “nel corso del rapporto lavorativo, il termine prescrizionale rimane fermo per poi riprendere il suo normale decorso dal momento della cessazione dello stesso: si evita in tal modo che il lavoratore, trovandosi già generalmente in una condizione di inferiorità rispetto al datore di lavoro, risulti ulteriormente vessato a livello psicologico dal timore di ritorsioni se agisce a difesa dei propri interessi. Bisogna tuttavia evidenziare che tale sospensione è possibile solamente per quei rapporti di lavoro che siano disciplinati in forza dell’art. 36 Cost., e non a tutti generalmente. Infine, la prescrizione quinquennale è applicabile anche alle rate di stipendio, pensione ed altri assegni dovuti dallo Stato, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale del 25 marzo 1981, n. 50”.
In parole più semplici, tutti i crediti di carattere retributivo periodici (come per esempio lo stipendio mensile) e tutte le altre indennità legate alla cessazione del rapporto di lavoro si prescrivono in 5 anni. La prescrizione in 10 anni vale per tutti quei diritti legali al passaggio di qualifica, le indennità di ferie e permessi non goduti, le erogazioni una tantum e, infine, il risarcimento dei danni nel caso in cui fosse stato omesso il versamento dei contributi pensionistici e previdenziali.
Esiste inoltre un altro tipo di scenario, ovvero una prescrizione presuntiva di 1 anno nel caso delle somme pagate con cadenza non superiore al mese e di 3 anni per le retribuzioni pagate con cadenza superiore al mese.
Vale inoltre la pena sottolineare che i termini per il diritto alla prescrizione non possono decorrere durante il periodo di lavoro, ma soltanto quando esso può definirsi terminato. Questa condizione sussiste in base ad un’interpretazione specifica della Corte Costituzionale dell’ultimo comma della dell’articolo 36 della Carta Costituzionale, che riporta quanto segue:
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”
In base a quest’ultimo principio, inoltre, il lavoratore non può rinunciare né allo stipendio né alle ferie e al riposo settimanale obbligatori.
Quando parte il decorso del termine di prescrizione?
La questione è stata chiarita nel dettaglio da una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 26246/2022, che ha specificato come il decorso del termine di prescrizione dei diritti da lavoro parta dalla cessazione del rapporto di lavoro. Si è trattato di una decisione importante, perché ha concretamente fatto ordine di una giurisprudenza fino a quel momento piuttosto confusa. Il principio, tra le altre cose, è valido anche per quei rapporti in cui trova applicazione l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, riformulato con alcune nuove regole imposte con la Riforma Fornero.
Fino alla Riforma Fornero, infatti, nel caso di aziende con più di 15 lavoratori la prescrizione dei crediti da lavoro decorreva, di mese in mese, nel corso dello svolgimento del rapporto. Diverso invece era il caso per i lavoratori all’interno di aziende al di sotto dei 15 dipendenti, per i quali la prescrizione decorreva subito dopo le dimissioni volontarie o il licenziamento della risorsa.
C’era infatti rispetto ai due casi un differente tipo di approccio: se i primi fossero stati licenziati in modo illegittimo sarebbe stata prevista la reintegrazione nel posto di lavoro, mentre ai secondi sarebbe spettata solo una indennità di risarcimento. Dietro a una tale scelta da parte della giurisprudenza c’erano motivi precisi: a volte, infatti, nelle realtà aziendali più piccole i lavoratori temono la possibilità di ritorsioni e vendette (come lo stesso licenziamento) da parte dei datori di lavoro nel caso in cui siano state presentate delle (giuste) richieste rispetto alle differenze retributive.
Fino ad un certo punto, dunque, il giorno a partire dal quale il diritto veniva fatto valere veniva posticipato al momento in cui il dipendente non avesse più avuto paura della reazione del proprio superiore alle richieste presentate (secondo l’art. 2935). La situazione è rimasta immutata fino alla Legge Fornero del 2012 e al Jobs Acts sui licenziamenti che hanno per l’appunto cambiato le carte in tavola.
Entrambi i provvedimenti, infatti, hanno limitato e di molto la possibilità di essere reintegrati nel posto di lavoro, eccezion fatta per alcuni casi piuttosto rari (per esempio quando un lavoratore veniva cacciato per motivi discriminatori/razziali o quando il licenziamento non era valido perché fatto solo in forma orale).
La decisione della Corte di Cassazione del 2022
La normativa in merito, come già anticipato, è cambiata soltanto in tempi molto recenti. La Corte di Cassazione ha ricomposto il contrasto giurisprudenziale che si era venuto a creare nel passato riformando una precedente sentenza della Corte di appello di Brescia che aveva rimarcato (nonostante l’art. 18 della Legge sullo Statuto dei lavoratori) l’importanza della stabilità del rapporto di lavoro come rimedio che il dipendente avrebbe potuto invocare in caso di licenziamento per ritorsione (quindi alla luce di un atto discriminatorio).
In quel contesto doveva essere considerata irrilevante l’attenuazione della tutela per un licenziamento basato su motivi estranei alle rivendicazioni retributive. Questa interpretazione, tuttavia, è stata successivamente considerata illegittima dai giudici che hanno voluto leggere in modo diverso gli art. 2948, 2955 e 2956 c.c. in materia di prescrizione.
In estrema sintesi, quello che più conta alla luce del nuovo sistema sanzionatorio, è la puntuale valutazione della legittimità dei licenziamenti disciplinari: in questo mutato contesto risulterà quindi necessario prima di tutto capire se il licenziamento sia avvenuto per giusta causa e quale sia stata la reale motivazione dietro al recesso.
Come rivalersi dei crediti da lavoro
Abbiamo detto che, com’è ovvio, è necessario che le rimostranze ai propri precedenti datori di lavoro vengano presentate in maniera formale, tramite una serie di prove e documenti specifici.
Il primo step è costituito dall’invio di una lettera di contestazione al datore di lavoro insolvente con la richiesta del pagamento delle somme che dovranno essere corrisposte. Nel caso in cui il destinatario della lettera non agisse come richiesto si potranno tutelare i propri diritti in altro modo. Ecco tutti gli scenari possibili:
- Si può fare un ricorso per decreto ingiuntivo, nel caso in cui fosse liquido
- Si può intentare una causa di lavoro
- Si può richiedere un tentativo di conciliazione all’Ispettorato del lavoro
- Si può passare ad una negoziazione con i rispettivi avvocati