Da Seveso ai giorni nostri: dove si trova la diossina e perché fa male

diossina

L’incidente industriale di Seveso è tra i più gravi della storia italiana: da quell’episodio sono state tratte alcune lezioni. Ecco oggi dove si trova la diossina, quali effetti accertati ha sull’uomo, l’ambiente e la salute, dove è stata bandita e dove c’è ancora

 

Quando parliamo di diossina la mente rievoca alcuni episodi che hanno segnato la storia del nostro paese, l’ex Ilva di Taranto (ancora operativa) e il disastro ambientale di Seveso. Di Seveso sappiamo più o meno tutto. Quarantasei anni fa, il 10 luglio del 1976 una nube di diossina si sprigionò dalla fabbrica di cosmetici dell’Icmesa di Meda, nella Brianza, in Lombardia. Questo impianto produceva triclorofenolo, un composto organico che sopra i 156 gradi si trasforma in 2,3,7,8-tetracloro-dibenzodiossina (Tcdd), una varietà di diossina particolarmente tossica. Quel giorno, a seguito dell’incidente in un reattore, la temperatura salì fino a 500 gradi. Il sito americano CBS inserirà quell’evento tra le 12 peggiori catastrofi umane ambientali di sempre.

Il bilancio all’istante fu di 3.300 animali morti (76mila abbattuti) e quasi 1.000 sfollati. Ma i suoi danni continuano a contarsi. L’Istituto superiore di sanità (Iss) ha chiarito che per valutare la mortalità a lungo termine legata alla diossina sono stati realizzati vari studi. Il primo copre gli anni fino al 1986, il secondo fino al 1991, il terzo arriva fino al 1996 e il quarto, che al momento è il più aggiornato, fino al 2001: copre quindi un periodo di 25 anni, ed è stato condotto sulla popolazione esposta alla diossina (divisa in zona A, zona B e zona R a seconda del grado di contaminazione della zona di abitazione) e su una popolazione di riferimento non esposta.

Il programma di monitoraggio ha coinvolto circa 280mila persone nell’area brianzola, di cui quasi 6.000 residenti nelle aree più colpite. La ricerca ha preso in esame il 99% di tutti i soggetti coinvolti.

In base ai dati più recenti, il risultato più significativo riguarda l’incremento di neoplasie del tessuto linfatico ed emopoietico nelle zone più inquinate, in particolare per le donne: nella zona A (quella immediatamente intorno al luogo dell’incidente) il rapporto di rischio è di 3,17, e nella zona B (quella più vasta intorno alla zona A) di 1,94. Il dato più alto riguarda i linfomi non-Hodgkin nella zona A (rapporto di rischio di 4,45), mentre nella zona B il rapporto di rischio per tutti i linfomi è di 2,14 e per i mielomi di 3,07. Fra gli uomini, l’unico dato in eccesso significativo riguarda la mortalità per leucemie, con un rapporto di rischio di 2,07 nella zona B.

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Gli effetti dell’incidente di Seveso però non si limitano ai tumori: nelle zone A e B sono stati osservati anche incrementi della mortalità per malattie circolatorie nei primi anni dopo l’incidente, di malattie croniche ostruttive dei polmoni e di diabete mellito fra le donne.

Le morti si possono solo stimare. Nella zona coinvolta, dal 1976 a oggi si è registrata una impennata della mortalità precoce (+23%). Alcuni numeri sono stati raccolti daPietro Alberto Bertazzi, medico della clinica del lavoro dell’Università degli Studi di Milano e da Luca Cavalieri d’Oro del servizio di Epidemiologia della Ats della Brianza. Tra i 4.821 residenti dell’area più distante dal reattore e non evacuata in quei giorni, in 357 sono morti per diabete (152 donne e 205 uomini). In quella zona, la percentuale di rischio è superiore dell’1,2% in più rispetto alla media della Brianza che si attesta al 10%.

Questi dati sono importanti per continuare ad agire sulla prevenzione.

Un discorso a parte andrebbe trattato sulla ex Ilva (oggi ArcelorMittal) di Taranto. L’acciaieria più grande d’Europa è un cancro aggrappato alla ex colonia greca che non ha mai smesso di crescere, nonostante le numerose promesse di bonifica, le inchieste per disastro ambientale, gli stanziamenti per la riconversione dei “cannoni”.

Diossina e inquinanti: l’Onu accusa l’Italia

Qualche settimana fa, l’Onu ha comunicato i risultati di un report nel quale punta il dito contro l’Italia, incapace di proteggere i diritti dei cittadini italiani dalle sostanze nocive. L’Onu indica le città cresciute grazie al boom economico del dopoguerra ma che oggi pagano i drammi ambientali causati da uno sviluppo insostenibile. Le diossine hanno contaminato Taranto, la Brianza e Brescia, dove il suolo e le acque registrano la presenza di livelli preoccupanti di PCB e diossine, mercurio, arsenico.

Gli incendi che quest’estate hanno colpito i depositi di rifiuti a Roma (discarica Malagrotta) fanno da contorno a un problema che mette a rischio la salute pubblica.

Cos’è la diossina e perché fa male

Con il termine diossina si indica comunemente un gruppo di sostanze (le policlorodibenzodiossine, i policlorodibenzofurani, e alcuni policlorobifenili anche conosciuti con le rispettive sigle: Pcdd, Pcdf e Dl-Pcb) che hanno caratteristiche chimiche, fisiche e tossicologiche tra loro molto simili.

Le diossine non sono sostanze prodotte volontariamente. Derivano in gran parte da processi naturali di combustione (come gli incendi di foreste o le emissioni di gas dei vulcani) oppure da specifiche attività umane quali l’incenerimento di rifiuti o i processi di produzione industriale.

Paghiamo gli errori del passato

Attualmente, i cambiamenti nei metodi di produzione degli stabilimenti industriali e, soprattutto, nelle tecniche di incenerimento dei rifiuti, hanno ridotto molto il rilascio di diossine nell’ambiente.

I policlorobifenili (Pcb), prodotti industriali ormai vietati da anni a livello mondiale, in passato hanno avuto vastissimo impiego in una serie di applicazioni. Attualmente, la loro presenza nell’ambiente è dovuta soprattutto al rilascio da parte di vecchi prodotti o apparecchi non correttamente eliminati o da “compartimenti ambientali” (come i sedimenti) dove si sono accumulati nel corso degli anni.

Perché la diossina è ancora presente

Nonostante le modifiche in gran parte dei sistemi di produzione industriale e trattamento dei rifiuti, le diossine sono ancora presenti nell’ambiente, questo perché possiedono un’elevata stabilità chimica (vale a dire che difficilmente si degradano), poca facilità di sciogliersi nell’acqua e, avendo caratteristiche simili alle sostanze grasse, riescono a rimanere per tempi piuttosto lunghi sia nell’ambiente che all’interno degli organismi, compreso il corpo umano, dove si localizzano principalmente nel tessuto grasso (adiposo).

Quanto tempo ci vuole per eliminare la diossina

Per eliminare il 50% di una dose di diossine ci vogliono più di 10 anni. Queste sostanze chimiche sono in grado di diffondersi facilmente nell’ambiente, raggiungendo distanze anche molto lontane rispetto al luogo di rilascio. Sono quindi presenti ovunque sulla Terra, anche in zone estreme ed isolate del nostro pianeta, come i poli.

Nelle stratificazioni più profonde dei terreni ci impiegheranno oltre 1 secolo per scomparire.

In conseguenza di tali caratteristiche, la loro attuale presenza nell’ambiente deriva, più che da nuove emissioni, da un loro accumulo avvenuto lentamente con il passare degli anni. Dall’ambiente, dove si trovano legate alla parte organica del suolo e dei sedimenti (depositi di materiale solido) marini e lacustri, le diossine entrano nelle catene alimentari, accumulandosi negli organismi più piccoli, poi nei grassi degli animali più grandi che se ne nutrono fino all’uomo che è esposto attraverso l’alimentazione (fenomeno detto di biomagnificazione).

Diossine e gli effetti sulla salute umana

L’esposizione limitata nel tempo ma ad alti livelli di diossine (esposizione acuta) può causare anche gravi effetti sulla salute umana, quali:

  • Malattie della pelle (come la cloracne, che si manifesta con eruzioni cutanee e pustole simili all’acne giovanile, localizzate su tutto il corpo, che possono persistere per anni, lasciando cicatrici permanenti);
  • Alterazioni delle funzioni del fegato;
  • Difficoltà nel metabolismo del glucosio.

Questo tipo di esposizione acuta è rara, ma si è verificata in passato a seguito di incidenti industriali (come quello appunto di Seveso). L’avvelenamento nel 2004 del presidente ucraino Viktor Yushchenko è un effetto acuto della diossina.

Non meno grave è l’esposizione a dosi più basse di diossine, ma per periodi di tempo più lunghi (esposizione cronica), come nel caso dell’Ilva di Taranto. Questa esposizione può:

  • Provocare danni sia al sistema immunitario che a quello endocrino;
  • Interferire con l’equilibrio fisiologico degli ormoni tiroidei e steroidei (azione da interferenti endocrini);
  • Determinare effetti sullo sviluppo del feto, quando l’esposizione avviene durante la gravidanza (esposizione prenatale) o nelle fasi immediatamente successive alla nascita (esposizione postnatale).

Diossine, cancro e diabete

Alcune tra le policlorodibenzodiossine ed i policlorodibenzofurani e tutti i policlorobifenili sono considerati cancerogeni per l’uomo. Possono infatti determinare tumori del tessuto linfatico, tumori del tessuto emopoietico (colpendo, quindi, organi e tessuti responsabili della produzione di globuli rossi, bianchi e piastrine) diverse forme di leucemia, linfomi non-Hodgkin e tumore al seno. Per questo motivo la agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (International Agency for Research on Cancer, Iarc) classifica alcune diossine nel gruppo 1 tra gli elementi cancerogeni per l’uomo.

Che le diossine possano favorire anche il diabete di tipo 2 è un sospetto lanciato già nei primi anni del 2000, quando sulla rivista Lancet apparve un primo studio.

Come arriva la diossina nel corpo umano

La principale fonte di esposizione umana alle diossine (pari a circa al 90%) è rappresentata dagli alimenti. I cibi con una maggiore componente grassa (come carni, alcune specie di pesce, formaggi ed altri prodotti caseari) sono quelli con i livelli più elevati di diossine.

Altre possibili vie di esposizione, anche se generalmente molto più limitate, sono costituite dall’inalazione e dall’ingestione di polvere o terra, oppure dal contatto con la pelle.

Poiché questi inquinanti sono presenti ovunque, sia nell’ambiente che negli alimenti, la popolazione è stata, e continua ad essere, costantemente esposta (anche se a livelli sempre più bassi con il passare degli anni).

Di conseguenza, nell’organismo di ogni individuo le diossine sono presenti in quantità misurabili. A questo proposito si parla di dose interna rilevata in una persona e determinata, oltre che dall’esposizione attuale, da quella avvenuta nel corso degli anni, visti i tempi lunghi di permanenza di questi inquinanti nell’organismo. Attualmente, la dose interna di diossine della popolazione generale, determinata attraverso studi di biomonitoraggio, è mediamente molto bassa e in continua diminuzione (già dagli anni ’70 alla fine degli anni ’90 era scesa di circa 4 volte). La presenza di diossine nel sangue, o nei tessuti corporei, di un individuo è indicativa di una certa ed avvenuta esposizione; questo però non significa necessariamente la presenza di malattie ad essa collegate.

Come proteggersi dalla diossina

Già da alcuni decenni sono state attuate dalle Autorità competenti efficaci misure di prevenzione, controllo e riduzione dell’esposizione umana alle diossine. Nei paesi dell’Unione Europea ad esempio, le emissioni prodotte dai nuovi impianti industriali sono state ridotte dell’80% e sono tuttora in diminuzione.

A seguito dell’incidente italiano del 1976 a Seveso, la Comunità Europea nel 1982 approvò la cosiddetta “Direttiva Seveso“, oggi giunta alla sua terza revisione, che prevedeva tra l’altro la registrazione degli stabilimenti industriali a rischio, l’identificazione delle sostanze pericolose trattate e la preparazione di specifici piani di prevenzione ed emergenza.

Siccome la trasmissione per via alimentare è responsabile di più del 90% dell’esposizione generale, in Europa i limiti di concentrazione di diossine presenti negli alimenti, identificati in modo da non provocare effetti sulla salute del consumatore, sono regolati per legge e periodicamente controllati attraverso specifici programmi ufficiali di sorveglianza.

Modificare le abitudini alimentari

Per ridurre al massimo l’esposizione alle diossine veicolate attraverso il cibo, occorre anche nutrirsi in modo sano. Ecco alcuni comportamenti che possono ridurre al massimo l’introduzione di diossine nel nostro organismo:

  • Ridurre il consumo di grassi animali e altri alimenti di origine animale (carne, latticini, uova);
  • Seguire una dieta alimentare il più possibile equilibrata e varia: una dieta costituita prevalentemente da un solo tipo di cibo proveniente da zone molto inquinate (come il pesce del Baltico) comporterà un’esposizione maggiore di una dieta ricca di cibi di origine vegetale e in generale molto variata;
  • Valutare, leggendo bene l’etichetta, da dove viene l’alimento che stiamo per acquistare, privilegiando quelli che sono prodotti in aree dove sono in atto i controlli;
  • Bere acqua (la diossina non è solubile in acqua);
  • Evitare bibite scure con coloranti (tipo E150D). Non contengono diossine, ma un largo consumo non fa bene alla salute;
  • Meglio l’uso di grassi vegetali, che animali (limitare il burro);
  • Più frutta e verdura (ben lavate e disinfettate con bicarbonato);
  • Più yogurt magro e marmellata (meglio se fatta in casa, senza addensanti);
  • Tra gli altri comportamenti, dobbiamo assolutamente evitare di bruciare rifiuti potenzialmente contenenti plastiche.