Negli ultimi cinque anni è cresciuto il numero dei paesi contro la pena di morte. Le esecuzioni di stato sono giudicate una prassi anacronistica che calpesta il diritto alla vita, non ha potere deterrente e rischia di condannare a morte un innocente
Il lessico asettico della giurisprudenza definisce la pena di morte “una sanzione la cui esecuzione consiste nella privazione della vita”. Come recita l’articolo 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dall’Assemblea Generale dell’Onu e sottoscritto da 173 paesi, “una sentenza capitale può essere pronunciata soltanto per i delitti più gravi”. E tra i crimini punibili vanno annoverati alto tradimento, spionaggio, omicidio e terrorismo. Non mancano, tuttavia, le eccezioni: in alcune nazioni africane e in Egitto, la condanna a morte viene comminata per reati minori, come il traffico di sostanze stupefacenti, e nei paesi dove vige la legge islamica si ricorre al boia anche per le accuse di sodomia e apostasia.
Come viene applica la pena di morte?
Le procedure adottate per eseguire la pena capitale variano a seconda del singolo paese. Negli Stati Uniti, la storica sentenza Baze contro Rees della Corte suprema ha stabilito che l’iniezione letale è il metodo primario, poiché ritenuto “più umano” rispetto alla sedia elettrica e alla camera a gas. In Cina le prassi utilizzate per uccidere il condannato sono due: fucilazione e iniezione letale. Negli stati islamici e in alcune regioni dell’Africa, si applica l’impiccagione e la decapitazione, nonché la barbara pratica della lapidazione (l’uccisione tramite il lancio di pietre) riservata alle donne adultere.
579 condanne a morte nel 2021
Analizzando il quadro fornito nel rapporto annuale di Amnesty International, una delle realtà più attiva nella tutela dei diritti umani internazionali, nel 2021 si è dato corso a 579 esecuzioni capitali, segnando un incremento del 20% rispetto all’anno precedente, in cui si è avuto un generale rallentamento a causa della pandemia. Ancora più inquietante il numero di condanne a morte emesse: 2.052 in 56 paesi del mondo, con il conteggio dei detenuti in attesa di essere giustiziati che sale a 28.760 (il 40% in più rispetto al 2020).
Continuando a scorrere le pagine del rapporto, si apprende che “la maggior parte delle esecuzioni note è avvenuta in Cina, Iran, Egitto, Arabia Saudita e Siria”. L’Iran, in particolare, si aggiudica il triste primato con 314 esecuzioni, mentre l’Arabia Saudita ha raddoppiato il numero dei detenuti sottoposti alla pena di morte.
Un preoccupante aumento
Seppure il dato globale delle esecuzioni resti tra i più bassi degli ultimi 10 anni, si denuncia un aumento preoccupante del ricorso alla pena di morte, anche in considerazione del fatto che le statistiche non tengono traccia dei dati di Cina, Corea del Nord e Vietnam.
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“Una tendenza che non sembra placarsi nemmeno nei primi mesi del 2022” – ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. Difatti, negli Stati Uniti le prime condanne a morte del 2022 hanno spento la vita di due quarantenni, entrambi colpevoli di omicidio; qualche mese più tardi, il 13 marzo, in Arabia Saudita sono stati giustiziati 81 prigionieri, accusati di terrorismo. Si è trattato della più clamorosa esecuzione di massa dell’ultimo decennio. Dunque, in tempo di pandemia, il boia ha continuato a lavorare, facendo sfumare l’opportunità di promuovere una moratoria della pena di morte.
La pena di morte nel mondo
Il traguardo di un mondo libero dalle esecuzioni di stato sembra essere a portata di mano: attualmente, più due terzi dei paesi hanno abolito la pena capitale per legge o nella pratica. Nel dettaglio, al 31 dicembre 2021, la pena di morte è stata soppressa per tutti i crimini da 109 paesi, mentre 144 nazioni l’hanno abolita di fatto, ovvero pur mantenendo la norma giuridica, non vi ricorrono da oltre 10 anni. Resta in vigore in 54 stati, tra cui Stati Uniti e Cina.
La pena di morte negli Stati Uniti
Negli Stati Uniti la pena di morte è applicata in 27 dei 50 stati federali. Nell’ultimo quinquennio, con la presa di posizione di Washington (2018), New Hampshire (2019), Colorado (2020) e Virginia (2021), il numero dei paesi abolizionisti è salito a 23, cui si sommano 13 stati che hanno aderito alla moratoria temporanea, prevedendo la sospensione di ogni esecuzione capitale a tempo indeterminato.
L’ultimo rapporto elaborato dal Death Penalty Information Center rende noto che nel primo semestre del 2022 ci sono state 7 esecuzioni e altrettante nuove condanne alla pena capitale; nel biennio 2020-2021, erano stati giustiziati rispettivamente 17 e 11 detenuti. Un trend che si consolida al ribasso e che vede gli Stati Uniti vicini a “celebrare l’ottavo anno consecutivo con meno di 30 esecuzioni e meno di 50 nuove condanne a morte”. Da annotare, inoltre, che l’opzione dell’iniezione letale tende a restringersi geograficamente: tutte le esecuzioni sono avvenute nei 5 stati che, dal 1972 in poi, si sono distinti per il ricorso massiccio alla pena capitale (Alabama, Arizona, Missouri, Oklahoma e Texas).
Le esecuzioni segrete della Cina
Quanto alla Cina, è impossibile determinare il numero esatto di condanne a morte ed esecuzioni, poiché i dati sulla pena capitale vengono occultati dal governo.
Secondo Amnesty International siamo “nell’ordine delle migliaia ogni anno”, il che rende la Cina “il maggiore esecutore al mondo”; tale stima è supportata dalla considerazione che il codice penale cinese prevede attualmente 46 reati che possono essere puniti con la morte, tra cui stupro, incendio doloso, droga e alcuni illeciti finanziari.
Nel 2013, davanti alle pressanti sollecitazioni di trasparenza avanzate delle Nazioni Unite, la Cina ha inaugurato un registro online in cui sono raccolte le sentenze emesse dalle varie corti. Tuttavia, questa iniziativa è apparsa più come un’operazione di facciata: Amnesty denuncia che “esistono centinaia di esecuzioni segnalate dai mezzi di comunicazione di stato che non risultano nel database, in particolare non si trova traccia delle esecuzioni degli stranieri per reati legati al traffico di droga” o dei casi relativi a reati di terrorismo.
Una delle motivazioni che contribuirebbe a circondare di mistero l’uso della pena di morte in Cina sarebbe la prassi di utilizzare gli organi dei prigionieri giustiziati per i trapianti, in palese violazione delle regole mediche della comunità internazionale.
La crociata dell’Unione europea
“La pena capitale non è solo un atto ma un processo, consentito dalla legge, di terrore fisico e psicologico che culmina con un omicidio commesso dallo stato”. Le parole di Irene Khan, membro dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, impongono una seria riflessione sulla necessità di riesaminare il valore sociale della pena di morte.
L’Unione europea con la Convenzione del 2002 ha fatto calare la pietra tombale sulla pena capitale, statuendone perentoriamente l’abolizione negli stati membri; in parallelo ha portato avanti una decisa campagna per la progressiva moratoria universale della pena di morte, sfociata nella risoluzione approvata dall’assemblea generale dell’ONU il 18 dicembre 2007, che ha incassato il voto favorevole di 109 stati, la ferma opposizione di 54 nazioni e l’astensione di 29.
Cinque motivi contro la pena di morte
Nella risoluzione delle Nazioni Unite sono condensate le ragioni alla base dell’abolizione della pena capitale.
1) Tale pratica calpesta il diritto inviolabile alla vita ed è una punizione crudele e disumana: al netto della ricerca di procedure sempre più sofisticate per assicurare una morte “indolore e umana”, non si potrà mai lenire la tortura psicologica dell’attesa di essere giustiziato.
2) La pena capitale preclude qualsiasi possibilità di riabilitazione, che è il principio portante del sistema sanzionatorio; senza contare che si corre il concreto rischio di uccidere un innocente. Il raffinarsi della scienza forense, ed in particolare l’introduzione della prova del Dna, ha consentito di ridare la libertà a centinaia di detenuti destinati ad essere condannati a morte. Inoltre, occorre considerare che i processi possono essere influenzati da una difesa inadeguata o da indagini sommarie, mosse dall’interesse di trovare un colpevole subito e a prescindere.
3) La tesi che la condanna a morte abbia una funzione deterrente è stata ampiamente smontata. Già nell’Ottocento, nel celebre saggio “Dei delitti e delle pene”, il giurista milanese Cesare Beccaria ne ha contestato il valore di esempio morale, rimarcando l’assurdità della legge che “per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordina uno pubblico”. Varie ricerche empiriche hanno corroborato l’inefficacia di tale sanzione, dimostrando che negli stati che applicano la pena capitale il tasso di omicidi, oltre ad essere più alto, tende ad aumentare dopo le esecuzioni. La violenza chiama violenza, anche quando ad applicarla è lo stato sotto una parvenza di legalità, a maggior ragione se esiste la possibilità di scegliere pene alternative, come l’ergastolo, altrettanto esemplari.
4) A proposito di carcere a vita, la lucida analisi del giudice John Paul Stevens, decano della Corte suprema degli Stati Uniti, ha demolito l’argomentazione che avvalora l’impiego della pena di morte in quanto più economica: le sentenze di pena capitale vengono sempre riesaminate, a volte a distanza di anni dal processo, comportando una spesa rilevante per via di una “macchina giudiziaria che è immensamente costosa”. Si aggiunga che, la lunghezza dell’iter processuale prolunga la sofferenza dei familiari della vittima.
5) Un’altra delle giustificazioni a favore della pena di morte è che essa vada intesa come “un servizio a conforto delle vittime del reato” e non come un atto punitivo dello Stato. Franklin Zimring, uno dei più rinomati penalisti statunitensi, in una recente pubblicazione ha confutato questo postulato, chiarendo che l’unica ratio della pena capitale è la “sete di vendetta”, quella anacronistica legge del taglione che permette di dare una veste più accettabile, quasi istituzionale, alla tradizione dei linciaggi e alla cultura della giustizia privata.