La proposta di legge, al vaglio della Camera, garantisce la cittadinanza ai minori stranieri che siano arrivati in Italia prima dei 12 anni di età e abbiano frequentato la scuola italiana per 5 anni
Il controverso tema della legge sulla cittadinanza è ritornato con prepotenza al centro del dibattito politico e istituzionale in virtù della recente proposta di legge sullo Ius scholae, presentata dal deputato 5 Stelle Giuseppe Brescia.
L’iniziativa legislativa, sostenuta dal centro-sinistra e osteggiata dalla Lega e da Fratelli d’Italia, mira a dare una risposta più coerente al fenomeno della cosiddetta immigrazione di seconda generazione, promuovendo un percorso di integrazione nei confronti dei minori stranieri che, attualmente, devono attendere i 18 anni per essere considerati cittadini italiani, vedendosi nel frattempo negate prerogative basilari. In primis, la possibilità di fruire appieno del diritto all’istruzione, aderendo, ad esempio, alle attività extra-scolastiche (dalle gite alle attività sportive).
Cosa prevede lo Ius scholae
La riforma all’esame della Camera consentirebbe l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte del minore straniero, nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, a patto che sia residente legalmente nel nostro paese e abbia frequentato per almeno cinque anni “uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione” o “percorsi di istruzione e formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale”.
Se il minore rispetta tali requisiti, spetta ai genitori – che devono risiedere regolarmente in Italia – presentare una dichiarazione di volontà entro il compimento della maggiore età del figlio. In alternativa, l’interessato potrà richiedere la cittadinanza autonomamente entro i due anni successivi al raggiungimento della maggiore età.
Una riforma per 280mila minori stranieri
Introducendo lo Ius scholae si andrebbe a sanare il profondo divario creato dalla normativa vigente, ispirata al principio dello Ius sanguinis, secondo cui possono diventare cittadini italiani solo i minori nati in Italia che abbiano risieduto legalmente e senza interruzioni nel nostro paese fino ai 18 anni. Una legge, vecchia di trent’anni, inadeguata a gestire l’evoluzione del fenomeno migratorio che, nell’ultimo decennio, ha assunto nuove dinamiche: la nostra società deve confrontarsi con migliaia di bambini e adolescenti che sono cresciuti in Italia, frequentano le nostre scuole e partecipano alla vita sociale e culturale delle nostre comunità; eppure, continuano a restare impigliati nella pastoia burocratica e a non poter godere degli stessi diritti dei propri coetanei.
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Basta dare un’occhiata ai numeri ufficiali per comprendere la portata della questione. Incrociando il rapporto annuale dell’Istat e i dati dell’ultimo report divulgato dal ministero dell’Istruzione, gli alunni con cittadinanza straniera sono oltre un milione, di cui circa 574mila sono nati in Italia. A fronte di tale panoramica, la platea dei beneficiari in linea con i paletti fissati dalla riforma sarebbe di circa 280mila ragazzi.
La differenza con lo Ius soli
Lo Ius scholae si discosta sostanzialmente dallo Ius loci, che riconosce la cittadinanza a chi nasce in Italia da genitori ignoti o apolidi. Tale principio è in vigore in Italia dal 1992 e va inteso come un’appendice dello Ius soli, ovvero quella teoria per cui è cittadino chiunque nasca sul territorio italiano, a prescindere dalla provenienza geografica dei genitori.
La proposta di legge al vaglio di Montecitorio, in conclusione, è ben lontana dal potersi qualificare come una rivoluzione radicale, bensì rappresenta un timido passo verso una più equa integrazione dei giovani stranieri: nei propositi dei promotori, è un tentativo di arginare e prevenire la “sottocultura della discriminazione” a partire proprio dai banchi di scuola, dove siedono migliaia di alunni che, pur parlando e pensando italiano, sperimentano quotidianamente il disagio di non essere considerati parte della comunità in cui vivono.
Come ha rimarcato l’ong Save the Children, “non riconoscere la cittadinanza italiana a questi bambini, bambine e giovani rischia di limitate il loro senso di appartenenza al territorio e limitare il desiderio di partecipare alla vita sociale dei quartieri”. Il che vuol dire allontanarci un passo in più dall’obiettivo di coltivare una cittadinanza globale che sia espressione di una identità molteplice e multietnica.