Uva, mele, Kiwi: il libro che racconta come i brevetti stanno ingabbiando l’agricoltura italiana

Nel suo ultimo libro “Chi possiede i frutti della terra”, Fabio Ciconte racconta come tramite le varianti “club” di piante brevettate, i produttori di mele, uva senza semi, kiwi e altri frutti si trovino privati di molta libertà. E anche lo stato italiano fa poco per difendere la biodiversità

 

In un certo senso, come ben racconta Fabio Ciconte, direttore di Terra!, nel primo capitolo del suo nuovo libro “Chi possiede i frutti della terra” (ed. Laterza), la storia dello scontro tra biodiversità e brevetti in agricoltura è tutta nel paragone tra due tipi opposti di pionieri americani: John Chapman, detto John seme di mela, che per decenni andò in giro per gli Stati Uniti piantando meli di diverse varietà e curandoli, e Lloyd Stark, di quella stessa famiglia che nel giro di qualche decennio avrebbe costruito un impero, che trova un melo con frutti dal sapore eccezionale (che diventerà la varietà brevettata Gold Delicious) in una sperduta fattoria del West Virginia, lo compra, e gli costruisce una gabbia intorno per impedire che altri possano replicarlo altrove.

Fabio Ciconte, oggi chi controlla le piante?
Diversi soggetti. Chi mi preoccupa di più sono i gruppi industriali che hanno il controllo della varietà genetica, e che diversamente di quanto avveniva in passato, controllano tutta la filiera.

Cosa cambia?
Diversamente da Monsanto e simili, che controllano solo il seme, se prendi Pink Lady (mele), Zespri (Kiwi), o tutto il nuovo mondo della frutta senza semi hanno il controllo totale di tutta la filiera. Addirittura affittano le piante agli agricoltori che devono restituire il frutto alla casa madre che ne fa quello che vuole. L’agricoltura diventa una specie di grande negozio di franchising.

Danno i semi?
Danno la piantina direttamente. L’investimento e il rischio d’impresa è dell’agricoltore, il ricavo è del marchio. Se oggi metto un ettaro di kiwi nell’agropontino, mi costa 50mila euro. Se mi va bene, bene. Se arriva una grandinata e mi falcidia tutto, quelle spese le ho fatte io. L’elemento più allucinante, che non conosce nessuno, sono quelli che vengono chiamati le varietà “club”.

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Di che si tratta?
Una varietà a cui hanno accesso solo alcuni fortunati agricoltori, mentre gli altri sono esclusi. ll club in Italia decide quanti ettari devono essere coltivati, dove e a che condizioni. Gli altri sono messi alla porta.

Cosa determina questo?
Chi è dentro è contento perché guadagna due lire in più, il tema è però tutti quelli che rimangono fuori.

Cosa cambia rispetto alla normale scelta dei fornitori?
Cambia che mentre tu puoi comprarti un seme di pomodoro Monsanto e piantarlo e venderlo, in questo caso queste aziende che hanno la proprietà su quella pianta dicono che i pochi che possono averla devono vendere alle loro condizioni. Tu non vai in un vivaio e ti compri una pianta di mela Pink Lady. Questa è una tendenza che si sta sviluppando molto negli ultimi anni. Varietà che funzionano bene nel mercato, ma che ledono la libertà degli altri.

Come funziona a livello di normativa sui brevetti?
Tu brevetti una cosa che si chiama “privativa vegetale“. La fai su una pianta con delle caratteristiche specifiche. Una volta ottenuta decidi tu a chi darla. Questa cosa nasce storicamente perché bisognava valorizzare l’innovazione. La novità sono i prodotti club che associano i brevetti al marchio. Pink Lady ha il brevetto sulla pianta a cui associa il marchio Pink Lady, appunto. L’agricoltore che ha accesso a quella pianta deve seguire il disciplinare.

E se non lo fa?
Questa roba qua in moltissimi casi si sta risolvendo nelle aule dei tribunali. Per esempio nel libro racconto degli agricoltori pugliesi che vogliono fare l’uva senza semi, che è l’unica che funziona sul mercato per ora. Sono agricoltori che dicono “ho provato a comprarmi la varietà x senza semi” per stare sul mercato. Chi possiede i diritti della varietà dice te la vendo ma alle mie condizioni, devi entrare nel mio club, e non puoi venderla a marchio tuo.

Come si è arrivati alle cause?
Gli agricoltori hanno fatto le piante con gli innesti ed è scattata la causa da parte delle aziende di breeding (quelle che detengono il brevetto, ndr), che mandano gli ispettori per le campagne a controllare che nessuno si sia rubato le loro piante. In alcuni casi gli agricoltori hanno vinto la causa, come nel caso di un produttore con la varietà di Ifg perché quando hanno innestato la pianta l’azienda non aveva ancora ottenuto l’autorizzazione per la privativa vegetale, ma altri contadini hanno perso e il giudice gli ha detto di eradicare le piante.

Nuovi recinti che vengono replicati sempre dalle multinazionali?
Tutta la biodiversità coltivata è in mano alle aziende di breeding che immettono nel mercato le nuove varietà e tolgono dal mercato le vecchie. Adesso il brevetto per Crisp Pink sta scadendo, dopo 25 anni, e quindi il marchio sta già cominciando a dire ai produttori, togliete quella e mettete la nuova variante, perché altrimenti chiunque potrebbe produrla liberamente.

Chi difende oggi la biodiversità?
Il settore pubblico in Italia in questi anni avrebbe dovuto fare una serie di investimenti in termini di ricerca, miglioramento genetico, e non l’ha fatto. Quello che ha fatto è solo ai fini di ricerca scientifica, ma non ha messo in campo varietà vere che stanno sul mercato.

Esistono però le banche dei semi, come quella famosa che si trova nelle isole Svalbard nel circolo polare artico.
Alla fine degli anni 60-70 hanno iniziato a costruire queste banche del germoplasma per conservare le varietà antiche. Qual è il problema? Le Svalbard sono un caso unico: una specie di back-up dove sono conservati i paesi di tutto il mondo, tranne l’Italia con cui non hanno trovato un accordo, ma sono di proprietà del paese che li manda in funzione di semplice back-up (riserva, ndr). Semi che i loro paesi hanno già nelle loro banche del germoplasma.

In Italia?
Se vai alla banca di Bari, una delle più antiche del mondo e la più grande d’Italia, istituto pubblico gestito dal Cnr insieme al ministero dell’Agricoltura. 56mila varietà, ricercatori motivatissimi, è dentro dei prefabbricati degli anni 70, due celle frigorifere malandate, con un budget annuale di 30-40mila euro contro i milioni di investimento delle Svalbard. Questo ti dice che l’Italia sulla conservazione della biodiversità non fa nulla, ed è un problema gigante.

La biodiversità, oltretutto, è un valore non solo per produttori e consumatori, ma anche per l’ambiente, vero?
Sì, perché oggi viviamo in una condizione climatica estrema. E avere poche varietà, non tutte con una buona capacità di resistenza, è un dramma. Tant’è che oggi c’è la corsa ad avere nuove varietà perché ne sono state messe in campo molte poche. Sulle antiche varietà magari hai quel singolo tratto genetico che potrebbe servirti per sviluppare una nuova variante resistente. Mentre la ricerca pubblica ha le banche dati e non le sfrutta, la ricerca privata sviluppa varietà per metterle nel mercato, e sono due mondi che non di parlano proprio.